Franz Krauspenhaar

Franz Krauspenhaar

Scrittore e poeta milanese di origine tedesca per parte di padre, madre calabrese. Autore poliedrico, attento alla forma e alla varietà delle esperienze letterarie possibili.

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Grandi Momenti

di Franz Krauspenhaar

Il 23 aprile è la giornata mondiale del libro. Ma perché è stata scelta questa data? Perché il 23 aprile di 400 anni fa morirono contemporaneamente lo spagnolo Miguel de Cervantes, l’inglese William Shakespeare ed il peruviano Inca Garcilaso de la Vega. Per celebrare la “giornata del libro” anticipiamo un capitolo di “Grandi Momenti” del nostro Franz Krauspenhaar, che si troverà in libreria dal 28 aprile

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Franz Krauspenhaar

Da quando ho avuto l’infarto, il tempo è passato più velocemente. Ha preso un passo inaspettato, il passo della rincorsa. Ultimamente mi dicono di ridere. Io sono uno che ride, ma ho ridotto le dosi. Farlo come prima mi sembrerebbe uno spreco. Sono diventato un economo dell’umore. La scarsità di serotonina e l’eccedenza nell’uso delle benzodiazepine mi avevano portato a un passo dalla follia. La depressione è come una corazza di dolore, talvolta. Altre volte, è il contrario. Ti fa vibrare l’interno della pelle per venti gelidi, fino a ucciderti. Con questi sentimenti neri, arrivato all’ospedale stamattina presto – fuori un gelo da sottozero – entro nello spogliatoio della palestra del day hospital. L’infarto l’ho avuto ai primi di ottobre, qui sono approdato… non ricordo più. Un altro scherzo del tempo, che scorre come da una fonte di perversione, una fonte battesimale della mia ignoranza, l’abiura al ricordo e dunque la fuga, forse l’ultima, perché l’oblio – questa vecchia parola che non ce la fa a sparire dal mio vocabolario – sia totale, sanante. Mi viene in mente, allora, la parola sanatorio. La mia vita è costituita in maggioranza da parole: i fatti, ormai, vengono tutti o quasi a divorarmi a seguito di parole, oggetti comunicanti di aberrazione, di offesa e d’amore, d’amicizia. La mia vita di parole la sento passare e leggermente trafiggermi. Non è passata attraverso la ruota dentata del mondo supercilioso del lavoro. Quelli sono solo ricordi risalenti a qualche decennio che, a ripassarli oggi, mi paiono assurdamente sorridenti: gli Ottanta e i Novanta. Sanatorio. Nel 1980 lessi Doktor Faustus di Thomas Mann, che per un pezzo, dopo la lettura seguente de La montagna incantata, archiviai nella mia mente come lo “scrittore del sanatorio”. E il sanatorio di Thomas Bernhard? Nei suoi racconti sul male ai polmoni che poi, poco oltre i cinquanta, lo ucciderà? Vorrei essere un modesto scrittore da sanatorio, e invece lo sono da day hospital._3397440979918921919_n

Nello spogliatoio siamo in due, io e il signor Nardi. Giorni fa, mi ha detto di essere umbro. È una persona a modo, anche se, ogni tanto, tradisce le sue origini e può diventare sanguigno. Ieri, gli ho chiesto l’età. «Se posso sapere» ho aggiunto come un cretino. «Settantasei» ha risposto infilandosi una scarpa da fitness. Siamo qui per fare riabilitazione post-infartuale. Appunto: da quanto tempo sono in quest’ospedale, cinque giorni a settimana? Dai primi di novembre? No, credo prima. Dall’altro ospedale, quello dell’operazione, ne ero uscito in una mattina di quasi freddo. Mi aveva fatto uno strano effetto, come se per due settimane fossi stato congedato all’estero e poi fossi dalle parti dell’aeroporto e camminassi per le vie di Milano scoprendo di colpo la stagione cambiata.

Comunque, sono qui da un certo tempo. E Natale è appena passato, e ora che ci penso avevamo formato un bel gruppo qui, con Vasco e Adolfo, entrambi di quarantaquattro anni, e il Sabbioni, sessantaduenne al secondo infarto, ex para, che continuava a fumare e a mangiare la trippa il venerdì sera, e la sciura Maddalena di ottantatré anni che s’infervorava sulla cyclette nel parlare di Berlusconi, e saputo che scrivo per mestiere mi recitò pure due poesie-preghiera rivolte al Nostro Eroe che era un po’ come quelle che probabilmente da Piccola Italiana aveva scritto per Mussolini. Nulla cambia. È questo il nostro mestiere: non cambiare. Maddalena è una signora spiritosa ed energica, porta benissimo i suoi anni. La signora Giuseppina di anni, invece, ne aveva settantasei, come il Nardi, ed era un po’ una rottura di palle averla vicina di cyclette. Aveva questo accento milanese un po’ di fuori – timbro basso – e teneva duro nel parlare con orgoglio dei figli e dell’amato marito defunto. Poi Ciro, napoletano del quartiere Stella, qui al nord da tanto tempo – un marcantonio di sessant’anni che coi pesi ci dava dentro più del dovuto. E il Casarini, classe ’43 (come Dalla e Gianni Rivera, gli dissi una volta) milanesissimo, che aveva rischiato di morire in ambulanza: aveva avuto i suoi bravi arresti cardiaci, e poi era entrato in azione, come in un telefilm americano, il defibrillatore…

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Ogni tanto, dopo il fitness, si andava in un pub lì vicino. C’era sempre ad aspettarci l’amico ottantaseienne di Casarini, tale Red, un simpatico milanese dei tempi andati. Piccolo imprenditore come Mauro, erotomane nonostante l’età, tutto vestito a palandrana di gran lusso e cappellone da padrone delle ferriere che con un paio di baffi stazzonati poteva sembrare il fratello di Amedeo Nazzari. Eh sì, l’età, la conta degli anni, la vita risucchiata dal tempo, la liquirizia sempre più masticata, ciancicata. Mauro Casarini i suoi anni se li porta bene. «Dai Franco, dillo ad Adolfo, al Vasco, andiamo all’Old Fox a mangiare e bere una birra, ci divertiamo, belli sereni, titic e titoc…» così mi ha detto Mauro al cellulare due giorni fa. E io niente, tramortito dalla tristezza delle feste avevo promesso e poi non mantenuto. Avevo anche immaginato la risposta di Adolfo, che doveva stare con la moglie e la figlia a festeggiare o a far finta, come quasi tutti. E idem Vasco, anche se ancora senza figli. Così da allora Casarini non l’ho sentito più, Vasco l’ho incrociato per caso in ascensore il 27, Ciro si è come volatilizzato. Hanno tutti chiuso. Io invece vado avanti ancora fino al 15 gennaio, per quel piccolo problema del trombo che mi ha preso subito.

Penso già con nostalgia a qualcosa che avevo dentro fino a poco tempo fa. Alle risate in spogliatoio, alle battute, alle soste al bar dell’ospedale dopo l’allenamento. Vasco, Adolfo e Casarini con un caffè e io con una lattina di birra gelata, che mi dissetava e soprattutto mi faceva da tonico psicologico. La birra di mattina, non presto, diciamo dalle dieci alle undici, è stata per tanti anni, da ragazzo, una specie di rito lievemente trasgressivo, che in certi casi mi dava una sbronza quasi surreale. Non portava con sé alcuna vena d’angoscia. A quel tempo tutto sembrava possibile, il presente era un paracadute di sogni. Sono sempre qui con Nardi, mi sto infilando la tuta blu della Fila comprata a un supermercato e riparto dal quel numero, il 76.

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Ecco, ventisei anni fa lui aveva la mia età, cinquanta. E io? Io ne avevo venticinque. E cosa è successo in tutto questo tempo? Niente. Niente, mi rispondo, più volte. Perdio. Nardi ha finito di prepararsi ed esce dallo spogliatoio, presto comincerà il rito di salubrità, la misurazione della pressione, e poi la cyclette. In ventisei anni io sono cambiato? Sì, mi rispondo, ma forse più no che sì. La cosa che più mi sconcerta è che, pur ripassando le fasi salienti della mia vita dal 1984 ad oggi, come nel cortometraggio che i moribondi vedono in chiusura dei conti, io non trovo nulla di veramente importante. Nonostante i lutti, le umiliazioni, gli insuccessi e anche i successi, io non vedo, in fondo, nient’altro che un cratere. Nemmeno grande: un cratere seminascosto in mezzo alla campagna. E nessuno tranne me si accorge di quel cratere. La verità è questa. Esco dallo spogliatoio e, prima che l’infermiera mi riferisca la pressione, faccio:«90 su 60, eh?» sorridendo complice. «Esatto, caro» dice lei. È gentile e premurosa, ma è quel caro che molti infermieri danno ai pazienti (nell’altro ospedale solo una mi chiamava il nostro ragazzaccio), una postilla leziosa che mi dà sui nervi.

La pressione è bassa come il mio morale di oggi. Nulla di nuovo. Salgo sulla cyclette. Dalla radio schizza fuori un residuo anni Ottanta, Broken Wings dei Mr. Mister, rock americano di facile presa, tra i Toto e gli Eagles. Forse è da allora che non ascolto questo pezzo. Lo so ancora a memoria. È come se gli anni in mezzo fossero di colpo abbattuti, ma per me è facile, il tempo è evaporato ed è rimasto il reperto ancora illeso. Fosse commestibile, sarebbe fragrante. Erano gli anni in cui Nardi, che alla mia destra pedala a fatica, aveva la mia età di oggi. C’è qualcosa che non funziona, penso. Il tempo ti ammazza. Il tempo bara sull’età.

( Grandi Momenti -Neo Edizioni-)

 

 

 

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Un pensiero su “Grandi Momenti

  1. Nadia chiaverini

    L’Articolo mi è’ piaciuto molto , reale e poetico , perché la poesia trasforma la realtà e percepisce battiti ed emozioni indicibili ai più .

    Replica

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