di Adolfo Mollichelli
Bilancio italiano in Europa e stavolta la Merkel non c’entra (anche perché è ben messa in carne) e però è un dato di fatto che l’Europa dei big ci abbia bocciato e che quella minore ci abbia sorriso. In Champions due batoste per Juve e Napoli e un pari casalingo della Roma aiutata dai santi in paradiso sollecitati dal Vaticano. Tre vittorie sontuose in Europa League. Cinque reti del Milan a Vienna, tre della Lazio in Olanda, tre dell’Atalanta all’Everton di Rooney.
Sarri è tornato dall’Ucraina che non è più il granaio d’Europa con lo sguardo del pastore della meraviglia, personaggio centrale del presepe napoletano. Ha visto da vicino lo Shakthar di Donetsz terra di cosacchi.
Una nobile europea forgiata da Lucescu che vanta ventidue (22) titoli tra cui una coppa Uefa, il tutto in un arco di tempo ristrettissimo, dodici anni.
Una squadra in fuga dalla guerra nel Donbass che ha preso in affitto per un anno lo stadio di Kahrkiv a trecento chilometri da casa. Zio Maurizio avrà pensato di trovarsi davanti una squadra di badanti, magari.
E non una formazione imbottita di brasiliani e di giocatori dai piedi buoni ben guidati da Paulo Fonseca che non è neppure lontano parente di Daniel Fonseca detto il coniglietto che ne fece cinque al Valencia ai tempi in cui a Soccavo si viveva tra la nostalgia del passato di gloria ed un presente poco proiettato nel futuro.
In campo europeo visionare gli avversari è d’obbligo e non credo che la “spiata” sia stata fatta. Va bene la fiducia illimitata nella propria squadra ma sarebbe bene ricordare che ci sono anche gli avversari. Pensate che noia se non fosse così.
Riavvolgo un attimo il nastro di un’immagine recente, Mertens che segna a Bologna e non esulta. Già sapeva forse che non sarebbe partito titolare in Ucraina?
Fatto sta che Sarri ha tenuto in panca il folletto belga che ha pure il nome elettrico Dries e va bene che a Napoli lo hanno ribattezzato Ciro, salvo poi metterlo in campo quando le cose s’erano messe maluccio. “Non può giocare cinquanta partite a stagione” la spiegazione di Sarri. Okay.
E allora non sarrebbe stato più logico giocare con Mertens dall’inizio a Kahrkiv e farlo riposare con il Benevento, con tutto il rispetto per la squadra di una terra che amo, il Sannio delle Forche Caudine e del Noce delle streghe, di storia e leggende e di un popolo di rara fierezza? Ai posteri la men che meno ardua sentenza.
Scusami ancora zio Maurizio, vorrei porti qualche altro quesito: non ti andava bene il sontuoso Allan di questi tempi insieme con il ragionier Jorginho? Ed era il caso di insistere sull’evanescente Hamsik di quest’inizio stagione?
Come? Ah, ho capito. Mi stai dicendo che non t’aspettavi le cappellate di Reina? In verità neppure io, specie dopo l’occhio felino mostrato a Bologna. Un giorno sull’altare, un altro nella polvere. E però il 5 maggio è lontano.
Uno spettro s’aggira sul nostro calcio. Turnover che passione (di molti tecnici nostrani) ma mi devono sempre spiegare perché Real, Barcellona, Manchester (United e City) e tanti altri squadroni calano sul tappeto quasi sempre gli stessi giocatori. Cioè i migliori.
La Vecchia Signora, piuttosto imbarazzata, s’è concessa alla voglia matta del tappetto argentino cresciuto quanto basti nella capitale della Cataloña. Lo chiamano familiarmente Leo e sbagliano. Perché si chiama Lionel e quindi è Lio.
El pequeño hombre vertical aveva meditato di matar la Vjeja Señora – no, stupro no e di questi tempi poi neanche a parlarne – da quando il Barcellona fu eliminato nei quarti della passata competizione: 3-0 a Torino, Chiellini e doppietta di Paulito Dybala che tanto aveva infastidito Lio collezionista di palloni d’oro, di stipendi ancor più rilucenti e di cause a gogò con la Fiscal e zero a zero al Camp Nou, oltraggio, se possibile, ancor più pesante.
E’ da allora che Lio andava cantando per le ramblas “vendetta, tremenda vendetta” con Iniesta che gli consigliava di intonare altre arie perché Rigoletto è gobbo e deforme per natura e buffone di corte per mestiere. E dicono anche che il papà commercialista abbia bisbigliato a Lio: se proprio l’opera verdiana ti è tanto cara, intona almeno “Questa o quella per me pari sono” che è uno dei pezzi forti del Duca di Mantova, noblesse oblige.
Dopo un primo tempo decente, considerate le numerose assenze pesanti, la Juve ha ceduto ad un Barcellona che è tornato a splendere intorno al suo Re Sole. Senza quel rompiscatole di Neymar (pensiero di Lio) Messi è più libero di andare dove lo porta l’istinto e cioè tra le vie portano verso il centro dell’area. Quando Ambra ha inviato il messaggino “sostituiscilo, ma non vedi che state giocando in dieci?“, Max ha aspirato “pesce lesso, meglio la mia triglia alla livornese”.
E nei minuti finali della mattanza Allegri non ne ha potuto proprio più e gli ha gridato, aspirando come un folletto: “Gonzalo, esci, faccio giocare un po’ il baby“.
E mentre Caligara, 17 anni e beato lui, provava l’emozione del debutto nel tempio dei “culé”, Higuain usciva dalla scena – si fa per dire – sommerso dai fischi dei tifosi catalani per il suo passato al Real e con il dito medio alzato, gesto che in spagnolo si chiama “peineta” (ah! che lingua musicale) e a capo chino.
Un’altra figuraccia internazionale del molto ex azzurro che un giorno all’improvviso ha scoperto di essere un perdente di successo sui palcoscenici che contano: un mondiale, due coppe America, la finale di Cardiff.
“Sta sempre con la testa in giù” ha notato Allegri parlando del Pipita Depresso, roba da psicanalisi. Forse il dispiacere celato a forza di aver perduto la maglia dell’Albiceleste assegnata da Sampaoli lo schizofrenico a Maurito Icardi che s’è dipinto i capelli di giallo oro e pare un girasole e ha suscitato l’ira di Wanda che non è il pesce di Crichton bensì la moglie bomba sexy, rapita a Maxi Lopez, maxi nel senso che ha messo su una ventina di chili.
Prosegue la spersonalizzazione della Roma. Da Spalletti il filosofo a Di Francesco lo zemaniano. L’unico punto in Champions, intanto, l’ha raccolto la squadra core de ‘sta città. Grazie alla generosità dei discepoli del cholismo ed alla bravura di Alisson autore di perlomeno nove-paratissime-nove. Un punto prezioso e porta immacolata per la gioia del Pupone incravattato e mesto sulla poltrona della tribuna Vip.
Ed eccoci all’Europa League. Scontato il successo del Milan cinese sull’Austria di Vienna che è poca cosa. Sugli scudi André Silva che nel Portogallo fa lo scudiero di CR7 cioè Cristiano Ronaldo. Montella non sarà tecnico straordinario ma essendo di Pomigliano d’Arco ha la sua buona dose di cazzimma. Ha cambiato modulo dopo lo sfascio dell’Olimpico e grazie alla pochezza tecnica dei viennesi più adatti al valzer che al calcio di un certo livello ha calato il pokerissimo.
A riprova che in Europa è rischioso sottovalutare gli avversari, Simone Inzaghi ha risolto la pratica Vitesse mandando in campo nella ripresa i pezzi forti: Immobile, Milinkovic Savic e Lulic. L’etichetta di impresa spetta all’Atalanta che giustamente chiamano Dea. Tornava in Europa dopo 26 anni e s’è trovata davanti l’Everton di Rooney che era sceso in campo sobrio e questa è già una notizia. Quanto ai suoi compagni, sono stati ubriacati dal gioco spumeggiante dei ragazzi di Gasperini, tecnico che le cosiddette grandi rifiutano di considerare. Pressing alto uomo contro uomo, triangolazioni e tocchi di prima velocissimi e precisi e poi quel Papu delle meraviglie, colosso tecnico di un metro e sessantacinque, petisso dell’impossibile.
Chiudo, ringraziando da sportivo l’Italbasket di Messina. Di più proprio non si poteva fare contro i colossi marpioni della Serbia. Datome, Belinelli e compagni tra i primi otto d’Europa. Grazie lo stesso.
Ed ora, libero di prendermi una squadra scelgo la Slovenia simpatia che ha eliminato la grande Spagna dei fratelli Gasol e Pau meriterebbe un monumento sulle ramblas. Oddio, forse sarebbe inutile e basta vederlo passeggiare sul mondo dall’alto dei suoi due metri e quindici e se dovessi incontrarlo e volessi guardarlo negli occhi…sai che cervicale.