di Ottorino Gurgo
Dobbiamo confessare che abbiamo sempre avvertito il fascino della minoranza, anche perché, come affermava Cornel West, eminente intellettuale americano, l’obiettivo di una democrazia “è quello di salvaguardare i diritti della minoranza ed evitare la tirannia della maggioranza”. Il coinvolgimento della minoranza nella messa a punto di una legge elettorale – la legge, cioè, che regola lo svolgimento del più importante evento in un sistema democratico – è assolutamente essenziale.
Fatta questa necessaria premessa, dobbiamo però rilevare, per entrare nel merito delle dispute che hanno fatto da contrappunto al varo della nuova normativa sul sistema di voto da parte della Camera, che la tesi secondo cui tale normativa costituirebbe un atto di sopraffazione nei confronti della minoranza, ci risulta francamente incomprensibile.
Alla gente, comunque, la riforma non piace. Da un recente sondaggio, reso noto dopo il voto di Montecitorio, emerge che, secondo il 45,2% degli italiani, quella approvata “è una pessima legge”, mentre il 38,4% la ritiene “la migliore possibile” e il 16,4%, o per paura di esporsi, o per totale mancanza di idee, si rifugia dietro il consueto “non so”.
Diciamo subito di non essere d’accordo né con il 45,2%, né con il 38,4%. Quella varata non è né la migliore, né la peggiore legge possibile. Si poteva far molto meglio, certo, anche limitandosi a prendere a prestito, così come sono, le leggi elettorali di altri paesi europei (quella tedesca ? quella francese ?).
E non è esaltante il ricorso al voto di fiducia al quale il governo ha fatto ricorso per stroncare il filibustering dell’opposizione. Ciò perché la richiesta di fiducia è sempre una manifestazione di debolezza (“di fiducia si muore” ammoniva Giulio Andreotti) e perché una legge come quella elettorale dovrebbe essere prerogativa esclusiva del Parlamento, senza l’intromissione del governo.
Ma si poteva fare anche di peggio data l’esigenza di coinvolgere comunque, nella determinazione delle regole del gioco, almeno una parte dell’opposizione, non limitandone l’approvazione alla sola maggioranza di governo.
Da questa tormentata vicenda ci sembra emerga un dato particolarmente significativo. Questo: che, a parole, forze politiche e cittadini invocano riforme, ma appena si sta per realizzarle, si tirano precipitosamente indietro.
Come dimenticare l’esperienza del referendum del 4 dicembre scorso, quando il 60% degli italiani disse “no” a una riforma istituzionale certamente perfettibile ma che, suscettibile nel tempo di miglioramenti, avrebbe comunque dato avvio al rinnovamento ?
La verità – dobbiamo prenderne atto – è che noi italiani non amiamo i cambiamenti, preferiamo adagiarci nello status quo, ne abbiamo paura e siamo, per nostra natura, diffidenti e conservatori.
Nel contempo i politici antepongono sempre alle riforme di cui pure sono usi riempirsi la bocca, i loro mediocri calcoli di parte finendo assai spesso, a seconda delle circostanze, con il dire no a ciò a cui in precedenza hanno detto sì e on il dire sì a ciò a cui avevano detto no. È il grande vizio della strumentalizzazione della quale non riescono proprio a liberarsi e che condiziona pesantemente la vita politica nazionale.