Il Divo è sempre Giulio
 Al Festival del cinema di Venezia Andreotti ruba ancora una volta la scena a tutti…     
di Gianpaolo Santoro

Il Divo è sempre Giulio

di Gianpaolo Santoro

 Cinquecento giorni dopo la sua morte al festival del cinema di Venezia  Andreotti ha rubato, tanto per cambiare, nuovamente la scena a tutti. Nella sezione Venezia Classici, il documentario “Giulio Andreotti – Visto da vicino” di Tatti Sanguineti. L’interrogativo è semplice: ma ha un senso nel terzo millennio, della politica ai tempi di twitter, parlare ancora di Giulio Andreotti, per cercare di capire qualcosa di più di questo Paese? Io penso di si. Certo, nei limiti del possibile. “Spiegare l’Italia- diceva Andreotti- non è facile. Basta pensare che i treni più lenti si chiamano accelerati e il Corriere della Sera esce al mattino…”

Andreotti è stato sette volte presidente del Consiglio, otto volte ministro della Difesa, cinque volte ministro degli Esteri, tre volte ministro delle Partecipazioni statali, due volte ministro del Bilancio, delle Finanze e dell’Industria, una volta ministro del Tesoro, dei Beni culturali e delle Politiche comunitarie.

Andreotti ha attraversato la monarchia, il fascismo, la Prima e la Seconda Repubblica, due guerre mondiali, sette pontificati, gli anni di piombo, i 55 giorni del rapimento Moro, le stragi di Stato. E come se non bastasse, anche i tanti misteri italiani. Andreotti è stato un enigma sulla cui decifrazione si sono esercitati, per oltre mezzo secolo, giornalisti, storici, scrittori e, da ultimo, anche uomini di cinema fornendo in ogni caso letture parziali e fatalmente superficiali. Io insieme con il collega Antonello Grassi ho scritto un libro su Andreotti: “Giulio” (Cento Autori editore). L’alfabeto Andreotti dalla A alla Zeta: la vita del più longevo, ma anche del più discusso ed enigmatico, politico italiano del Dopoguerra raccontata attraverso alcune parole chiave, con la convinzione che non è esistito un Andreotti solo.  Ventuno frammenti di un uomo che è stato la storia del Paese. Per consentire ad ognuno di comporre il puzzle  Andreotti come meglio crede.

Ripropongo il capitolo corrispondente alla lettera C, quello di tutti gli uomini del Presidente, quello di C come corrente. I leggendari andreottiani.

giulio-andreottiTutti gli uomini del Presidente 

Zio Giulio, Belzebù, il Divo, il Capo, Molok, la Sfinge, il Gobbo, il Papa Nero, la Volpe, l’Indecifrabile, il Papalino, il Cardinale laico, il Divo Giulio, Giulietto, l’Ultimo dei Mandarini, Zù Giulio, il Caro Giulio, Giulio II, il Principale, la Salamandra, l’Eternità. Giulio Andreotti l’hanno chiamato in tutti i modi.

E chissà, forse per emulazione, anche gli andreottiani hanno sempre avuto un soprannome. Lo squalo, ma anche la belva (Vittorio Sbardella), il Ciarra (Giuseppe Ciarrapico), il camerlengo, l’Apostolo o il “Limone” (Francesco Evangelista),‘o ministro ma anche Pomicin-cin per le mega feste nella villa sull’Appia (Paolo Cirino Pomicino), il braccio giudiziario (Claudio Vitalone), il carabiniere della Chiesa (Alfredo Ottaviani), Sua Sanità (Fiorenzo Angelini), Nino (Adolfo Loris Cristofori). E fra le seconde linee in questa sorta di Rugantino della politica capitolina, di cui spesso si sono interessate anche le aule giudiziarie, er serpente (Raniero Benedetto), er Gatto (Mario Gionfrida), er Lupetta (Antonio Gerace), Giò er biondo (Giorgio Moschetti), er Pennacchione (Nicola Signorello), er monaco (Pietro Giubilo).

Francesco Evangelista, l'Apostolo

Francesco Evangelista, l’Apostolo

Tutti gli uomini del Presidente. C’era quello che oggi si chiamerebbe il “cerchio magico” e che, una volta, era il “club della barba”, quello del quale facevano parte gli uomini più stretti, gli intimi, se volete anche i cortigiani, quelli che erano ammessi alla riservata e tanto ambita operazione-rasatura (perché Andreotti la barba non se l’è mai saputa fare, così come non ha mai guidato una macchina) con il fido Saverio che prima di andare a lavorare alla barberia della Camera dei Deputati, passava nel privatissimo gabinetto dell’ufficio del Presidente, un rituale quotidiano, un’atmosfera rilassata tutta aneddoti e ricordi, barzellette e pettegolezzi, un “cazzeggio” all’ora del cappuccino che spesso aveva posti in piedi, nonostante ci si sedesse anche sulla tazza del water e del bidet seppur ingentiliti da delicati cuscini con ricami dorati…

Vittorio Sbardella, la Belva

Vittorio Sbardella, la Belva

La storia della Democrazia Cristiana è stata anche la storia delle sue correnti, uno dei contributi più originali del pensiero e dell’organizzazione dei democratici cristiani italiani dal secondo dopoguerra fino alla eutanasia del partito. Certo, le correnti sono state anche uno straordinario strumento di forza e di potere all’interno e all’esterno della Dc. L’Andreottismo, poi, è stato un fenomeno a parte, qualcosa di diverso da una semplice corrente. E la prima cosa che appare evidente è che la “carriera” dell’Andreotti uomo di governo non ha mai avuto alcun rapporto diretto con il peso della sua corrente. E questa è già una forte anomalia. Anzi paradossalmente era vero il contrario. Andreotti era potente e allo stesso modo era potente la sua corrente. Ed è stato così sin da subito.

Paolo Cirino Pomicino,  ‘o ministro

Nel ‘54 viene battuto assieme al gruppo degasperiano, ma la sconfitta è di quelle con tanto di paracadute, visto che Fanfani lo vuole ministro degli Interni. La sua corrente Primavera non esiste nella conta congressuale, eppure Andreotti è ministro delle Finanze dopo il congresso di Napoli. E via via sempre la stessa storia. La sua corrente non era mai quella più forte all’interno della Dc, eppure lui era sempre in primo piano, è sempre stato al governo, più volte anche come presidente del Consiglio. La verità è che all’interno del partito la sua figura incuteva timore e reverenza. Era difficile dire di no ad Andreotti. Probabilmente uno dei pochi, se non il solo, che non doveva sottostare a certe regole. E’ sempre sfuggito alle logiche del bilancino di quel manuale Cencelli che ha regolato (con una formula algebrica deterministica) in modo scientifico la spartizione delle cariche istituzionali, pubbliche e partitiche in base al peso di ogni singola corrente.

Giuseppe Ciarrapico, el Ciarra

Giuseppe Ciarrapico, el Ciarra

Priva di radicamento territoriale al di fuori dai confini del Lazio, la corrente di Andreotti che a Roma aveva ereditato i quadri della destra clericale, del centrismo degasperiano e che godeva, inoltre, dell’appoggio del Vaticano si alleava periodicamente con correnti espresse da altre realtà territoriali. E fu così, allora, che nel periodo di maggiore fulgore, intorno agli anni ottanta, nelle fila andreottiane c’era la corrente napoletana di Paolo Cirino Pomicino e Enzo Scotti (che però ogni tanto cambiava casacca), quella bresciana di Giovanni Prandini (che poi passò con Forlani) quella milanese di Luigi Baruffi, quella emiliano-romagnola di Nino Cristofori, quella piemontese di Silvio Lega, quella calabrese di Camelo Puija, quella palermitana di Salvo Lima e quella catanese di Nino Drago. E poi, al di fuori delle espressioni geografiche, il gruppo andreottiano compì un lungo tratto di cammino insieme a Comunione e liberazione, il movimento ecclesiale cattolico fondato da don Giussani, pur mantenendo sempre un ampio margine di autonomia.

Andreotti e Sordi, il tassinaro

Andreotti e Sordi, il tassinaro

Ma Andreotti è sempre stato Roma, il Papa repubblicano, l’uomo che parlava con i Pontefici e andava a mangiare con Trilussa, che annunziò al Processo di Biscardi che l’ottavo re di Roma, Falcao, non sarebbe stato ceduto, e che Alberto Sordi, altro simbolo capitolino, volle in un suo film, il “Tassinaro”.

Il potere andreottiano è stato soprattutto romano. E a incarnarlo ci sono stati due uomini, uno piccolo e apparentemente schivo cui piaceva vedere dare i cazzotti (fu anche presidente della federazione italiana di pugilato) e un altro grosso e “caciarone” a cui piaceva, invece, dare cazzotti: Franco Evangelisti e Vittorio Sbardella, le mani sulla capitale. Sono morti a distanza di dieci mesi uno dall’altro fra il 1993 ed il 1994. In un soffio spirò anche il potere andreottiano…

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Baffetti sottili e sempre molto curati, capelli impomatati di brillantina, occhi vivi, marcati e sporgenti, un eterno sorriso appena accennato sul viso eternamente pallido che andava un po’ sul giallo. Franco Evangelisti degli uomini del “Capo” era quello più fidato, il vero “braccio destro”.  “Io non sono un pagliaccio, non sono come quelli che cambiano più correnti che paia di scarpe.” Così raccontava del suo rapporto con il patrono Giulio. Già, perché in quasi mezzo secolo di militanza politica nella Dc, lui, il piccolo e vulcanico ciociaro di Alatri, non solo non aveva mai cambiato casacca o insegna correntizia, ma era stato quello che aveva organizzato, all’inizio degli anni cinquanta, la prima pattuglia di uomini intorno ad Andreotti. Fu lui a promuovere e a fare i reclutamenti della corrente Primavera, fu lui a sceglierne il nome mutuandolo da quello delle squadre giovanili delle squadre di calcio. Doveva essere la forza “giovane” della Democrazia Cristiana.

Evangelisti e Andreotti

Evangelisti e Andreotti

Evangelisti è sempre stata l’anima degli andreottiani, il collante, la pedina che agiva dietro le quinte, l’uomo a cui erano affidati gli incarichi più delicati a cominciare da quello di tessere le trame con i poteri forti e gli altri partiti, Pci compreso. “Uno per tutti, tutti per Giulio” era il suo motto. Eppure con Andreotti non fu proprio amore a prima vista. Lui era più di “sinistra”, aveva frequentato il liceo Apollinaire insieme a Tatò, futuro segretario particolare di Berlinguer. Il suo compagno di banco era Ferdinando Di Giulio, che ritrovò alla Camera, vicepresidente del gruppo comunista. Ma non potettero più sedersi vicino. Ed allora ogni mattina erano i primi ad arrivare in Transatlantico e li si vedevano seduti vicini, su uno dei tanti divani di pelle rossa del corridoio dei passi perduti, come a voler ritornare bambini.

Dati i suoi trascorsi poteva capitare che con Andreotti si trovassero politicamente su sponde opposte. “Ma Giulio era “er mejo.  Me ne accorsi – raccontava – quando ascoltai il suo intervento ad Assisi al primo congresso dei giovani dc. Dopo quel discorso incominciammo ad attaccare i manifesti insieme. E da lì iniziò il nostro sodalizio.”

Introverso uno, estroverso l’altro. Una sfinge l’uno, ciarliero l’altro. Se Andreotti era un “muto”, Evangelisti era un inarrestabile fiume di parole, l’unico autorizzato a interpretare i silenzi del “Capo”. Una sorta di portavoce. Ma a modo suo, fatto di frasi sussurrate e occhiolini di intendimento. Era quello delle “dichiarazioni ufficiose”, il sapiente dispensatore di ciò che non si poteva dire, dei retroscena della politica romana. Giulio e Franco erano amici, certo, alla maniera di Andreotti: un’intimità distante. “Non sono mai stato un salottiero ma Franco ed io siamo stati amici davvero. Anche le nostre mogli si incontravano spesso, si frequentavano.”

Andreotti e De Gasperi

Andreotti e De Gasperi

 

Un’amicizia che rischiò di incrinarsi, proprio in retta di arrivo, quando Evangelisti ormai era fuorigioco per i postumi lunghissimi di un ictus.  I giornali scrissero che aveva fornito una versione dei fatti diversa da quella di Andreotti nella vicenda Pecorelli-Moro. “Non è vero, non è giusto che la gente creda che Evangelisti mi abbia voltato le spalle, abbia tradito la mia amicizia. Quando i giornali dissero che aveva raccontato ai giudici una verità diversa dalla mia, Franco mi telefonò subito: “Guarda che io non ho detto quelle cose”. Era preoccupato che potessi credere a quelle fandonie”.  Ci fu anche il confronto tra i due vecchi, grandi amici. Quella è stata l’ultima volta che Andreotti e Evangelisti si sono ritrovati, impietriti e commossi, nel più difficile, impietoso e chiarificatore dei faccia a faccia.

Lockheed, Sindona, Omni, Caltagirone-Italcasse, Pecorelli-Moro. In tutti i grandi scandali è comparso il nome di Evangelisti, che spesso si leggeva Andreotti. E lui ha sempre catalizzato su di sé ombre e accuse. “Quanto ce fai patì a volerte bene“, amava dire di Giulio alla maniera di Petrolini. Fino a perdere il posto di ministro della Marina quando, non certo per ingenuità , confessò, in una intervista a Paolo Guzzanti su “Repubblica”, di aver avuto finanziamenti dal costruttore romano Gaetano Caltagirone. Disse che i soldi li aveva presi solo da Gaetano, un suo amico da vent’anni. “Ogni volta che ci incontravamo, mi diceva: “A Frà che te serve…” e mi faceva un assegno, a seconda delle esigenze, per finanziare la corrente, per la campagna elettorale, per il partito. Ma non li dava solo a me, finanziava anche la corrente fanfaniana, Forze Nuove, i dorotei: insomma non aveva con noi un rapporto di preferenza…”

Gaetano Caltagirone

Caltagirone, a Frà che te serve?

Evangelisti, inconsapevolmente, è stato il primo pentito di Tangentopoli. Anche se allora i giudici fecero finta di niente. Ci vollero altri dodici anni perché scoppiasse Mani pulite, un sistema di tangenti assai più raffinato del casareccio giro di assegni tratteggiato a suo tempo da Evangelisti. “E’ ingiusto che Evangelisti venga ricordato per quella frase, non se lo merita – commentava Andreotti -. Franco era davvero amico di Gaetano Caltagirone e dunque è possibile che in un momento di bisogno per il partito abbia ricevuto qualche aiuto. La frase è ad effetto ed è rimasta impressa.”

Evangelisti non ha fatto in tempo ad essere riabilitato, il suo grande amico Gaetano sì, prima con la sentenza definitiva di assoluzione dalle accuse di peculato nell’inchiesta Italcasse per illecito finanziamento, poi grazie al decreto firmato da Napolitano che gli ha consentito di ritornare ad essere Cavaliere del Lavoro dopo essere stato depennato dal prestigioso elenco “per indegnità e mancanza degli elevati requisiti morali e professionali”. L’uomo di quel “A Fra che ti serve ?” è stato riabilitato in pieno, insomma, nel Gotha degli imprenditori. Evangelisti resta marchiato come un tangentaro.

Andreotto e Sbardella

Andreotti e Sbardella

Sapeva menare le mani. Così ha costruito la sua fortuna. E’ partito dal ring della strada Vittorio Sbardella lo squalo, o la belva, come si preferisce, la faccia dura dell’andreottismo, l’uomo che non conosceva mezzi termini, un carrarmato, pochi scrupoli, molta determinazione: la sua politica era “sangue e merda”.

Era nato a Roma nel quartiere “rosso” del Prenestino, ma aveva il cuore “nero”. Alto e grosso, amava più trascorrere i pomeriggi in palestra che a studiare Senofonte, irrobustiva il fisico e imparava a tirare cazzotti, una necessità per uno come lui che in strada non andava solo per fare una passeggiata. Frequentava l’Accademia pugilistica di Alberto Rossi, detto il “Bava”, il capo dei “pugili”, una sorta di guardia pretoriana a totale disposizione del segretario nazionale del Msi, ed era stato “protagonista” dell’assalto alle Botteghe oscure del 1955, e di quello alla libreria Rinascita, dove una foto lo immortalò con una tanica di benzina in mano. In poche parole era conosciuto alla polizia come un “picchiatore nero”.

“ Quelli della sinistra vogliono le stesse cose che volemo noi. Ma loro so’ poeti, prima ce devono piagne un po’ sopra”. Aveva le idee chiare in politica e ben presto si rese conto che gli orizzonti politici del Movimento Sociale gli andavano stretti. Decise così di aderire al gruppo politico di “Nuova Repubblica”, costituito da Randolfo Pacciardi, che si rifaceva al modello gollista della V repubblica francese e puntava ad un’evoluzione dell’istituzione repubblicana dell’Italia in senso presidenzialista. Ma fu soltanto una tappa intermedia in vista dell’approdo alla Democrazia Cristiana.

Andreotti e Moro

Andreotti e Moro

 

Entrato nella Dc come ragazzo di bottega, Sbardella ben presto dimostrò di non avere solo muscoli d’acciaio e il pugno da kappaò ma anche di essere un gran lavoratore, sempre presente e instancabile. La sua fortuna fu diventare autista e guardaspalle di Amerigo Petrucci, l’ex sindaco di Roma. Sbardella fu protagonista di un passaggio politico importante all’interno della Dc romana, quello di far riavvicinare, dopo guerre e rancori, Andreotti e Petrucci, che per anni era stato il numero due della corrente capitolina andreottiana, conquistandosi così le simpatie del Presidente, il quale, adocchiato quel centurione svelto di mani e di parola e pieno di spirito d’iniziativa, prese a benvolerlo.

Amerigo Petrucci

Amerigo Petrucci

 

Alla morte di Petrucci, Sbardella, ereditato il pacchetto di voti dell’ex sindaco, non ci pensò due volte ad andare a bussare alla porta di Andreotti. Gli portò in dote un terzo dei voti della Dc romana. Una bella piattaforma per un decollo garantito. Da quel momento in poi fu un’ascesa continua e vorticosa: consigliere regionale, assessore, membro della direzione democristiana e infine deputato, eletto con una valanga di preferenze: 125.715.

Un exploit dovuto certo anche ad Andreotti, ma soprattutto all’enorme potere accumulato dentro il partito capitolino e all’appoggio di Comunione e Liberazione, che si era conquistato a modo suo, senza tanti fronzoli come amava fare. Secondo la ricostruzione di Marco Bucarelli, responsabile romano dei ciellini, “un bel giorno si presentò, non preavvertito, nella nostra sede e senza tanti giri di parole ci chiese cosa poteva fare per noi”.  Una proposta indecente, fu amore a prima vista: stretto negli anni attraverso ilSabato”, di cui Sbardella fu a lungo l’editore, i meeting di Rimini, le messe “in esclusiva” a Santa Maria Maggiore, i rapporti con le cooperative bianche.

Indro Montanelli,

Indro Montanelli, attacco feroce a Sbardella

Molti nemici, molto onore. E lui, lo squalo, il podestà romano della Democrazia Cristiana, di nemici ne aveva tanti. Erano molti quelli che lo consideravano, il prototipo del politico cinico, arrogante, spregiudicato, pronto a tutto per il potere. Aveva anche un “nemico” eccellente, Indro Montanelli, che per lui fece un’eccezione e corredò per la prima volta con una foto il suo “Controcorrente”, la rubrica che teneva sulla prima pagina del Giornale: un’immagine impietosa, che metteva brutalmente in rilievo ogni tratto distintivo dell’uomo messo alla gogna: la mascella da centurione, la pelata mussoliniana, la dentatura panoramica, il sopracciglio arcuato sopra l’occhietto furbo. “Quando un uomo politico riesce a farsi nemico il titolare di una faccia come quella qui sopra riprodotta, vuol dire che ha ancora qualche carta da giocare”.

A chi gli rinfacciava, di essere stato uno dei simboli della degenerazione partitocratica, clientelare, tangentara, rispondeva con fierezza citando Heinrich Heine: “Dio mi perdonerà, è il suo mestiere.”

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Pietro Giubilo, sindaco sbardelliano di Roma, poi commissariato, lo commemorò rivelando uno Sbardella inedito. “Era tutto il contrario dello squalo: ha vissuto sempre con grande dignità e ha vissuto prima la fine della carriera politica e poi la malattia con la stessa dignità. Chi era, è presto detto: quello che sconfisse il Pci nelle periferie romane. Certo, non era un tipo da salotti…” Sbardella e Andreotti litigarono per Craxi. Proprio quel Craxi che Andreotti non amava ma con cui decise di condividere un pezzo di strada dando vita al Caf, il triangolo di potere formato da Craxi, Andreotti e Forlani. Sbardella invece propendeva per un nuovo compromesso popolare fra Pci-Pds e Dc, magari benedetto dalla Chiesa, tutto il contrario di quel che voleva il Psi, insomma. Litigarono e lo squalo, con la ferocia di sempre, non ebbe alcun riguardo per il “Capo”. Non capisco perché alla sua età non si tiri da parte: anche il mitico Ermete Zacconi non voleva ritirarsi dalle scene, ma alla fine divenne patetico”. Fu il suo ultimo cazzotto.

 

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