di Ottorino Gurgo

Il dibattito sull’Italicum tiene banco. Sono sul tappeto due temi di fondamentale importanza: la validità della legge elettorale sostenuta con grande determinazione dal governo di Matteo Renzi e l’opportunità o meno di porre la questione di fiducia su un provvedimento che, fissando le “regole del gioco”, dovrebbe, in realtà, comportare la più ampia condivisione di coloro che al “gioco” sono chiamati a partecipare.

Vorremmo, tuttavia, accendere i riflettori su un altro argomento che ci sembra meritevole di non minore attenzione, ricco com’è di implicazioni per il futuro della nostra vita politica. Ci riferiamo alla natura e alle caratteristiche del partito che, nelle discussioni svoltesi  in Parlamento e fuori del Parlamento su questo contestatissimo Italicum, ha svolto il ruolo del protagonista: il Partito democratico. Il Pd è il partito di maggioranza relativa e, con buona pace dei suoi avversari, e pur tenendo nel debito conto le periodiche oscillazioni dei sondaggi demoscopici, appare destinato ad occupare questo ruolo per il prossimo futuro, con tutto ciò che questo comporta.

Andreotti e Renzi

E’ stato osservato da numerosi politologi, ancor prima che le sue divisioni interne emergessero in modo tanto clamoroso, che il Pd doveva, a ben vedere, considerarsi alla stregua di una confederazione, raccogliendo al suo interno gruppi di varia provenienza (la Dc, il Pci, il Psi, il Pri) e con orientamenti non sempre coincidenti. Ciò ha indotto più di un  analista politico a operare una sorta di equiparazione tra il Pd e la vecchia Democrazia cristiana che, in antitesi con il monolitismo del suo principale concorrente, il Pci, raccoglieva al suo interno punti di vista diversi, anche su questioni non secondarie.

Pierluigi Bersani , è in gioco la democrazia

Ebbene, il dibattito sulla legge elettorale, ci sembra abbia chiaramente rivelato che questa equiparazione è profondamente sbagliata. A differenza di quel che sta accadendo nel Pd, infatti, le varie correnti che si riconoscevano nella Dc, avevano la capacità, nei momenti delle decisioni, di ritrovarsi in una sintesi unitaria.

Carlo Donat Cattin

E’ certamente vero che anche nella Dc si verificarono forti episodi di contestazione. Ma al cronista, quando deve appellarsi alla memoria per ricordare quando questi scontri non giunsero a ricomposizione, torna alla mente soltanto quel 12 febbraio del 1972, quando Carlo Donat Cattin, non condividendo l’apertura al partito liberale e l’accantonamento della formula di centro sinistra da parte del nuovo governo formato da Giulio Andreotti (del quale, pure, era stato nominato ministro) disertò il giuramento al Quirinale recandosi ostentatamente dal barbiere di Montecitorio.Ma si tratta di un “unicum” che, proprio perché tale, viene ancora ricordato, 43 anni dopo. Nel Pd analoghi episodi di dissenso, ad onta dei continui tentativi di mediazione, si ripetono con cadenza quasi quotidiana. Ed è forse per questo che il Pd, a differenza della Dc, non continuerà molto probabilmente a governare per 45 anni.

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