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Il tallone d’Achille

di Gianpaolo Santoro

Sarà che abbiamo vissuto il calcio in bianco e nero, quello delle radioline incollate all’orecchio e di tutto il calcio minuto per minuto; sarà che amavamo la Coppa dei campioni ed i palloni di cuoio marroncini; sarà che per noi gli arbitri erano quelli vestiti di nero e non uomini arcobaleno con lo spray. Sarà, insomma, che siamo gente di un altro calcio, quello di quando si andava allo stadio e non si stava davanti alla televisione, c’erano i giocatori bandiera attaccati alla maglia, una squadra e quella per tutta la vita. Ed i presidenti erano il Gotha dell’imprenditoria italiana, tanto ricchi, quanto scemi, dei ricchi scemi.

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Achille Lauro

Vennero etichettati così quasi sessanta anni fa da Giulio Onesti, allora presidente del Coni, quei mecenati che sembravano dei bambini, che si divertivano a comprare giocatori per regalare un sorriso ai loro tifosi, buttavano via si un mucchio di soldi, ma rappresentavano un sogno, una speranza, un desiderio.

Era un calcio dove i tifosi facevano i tifosi e incollavano le figurine nell’albo Panini, leggevano l’almanacco del calcio e non Transfermarkt, si entusiasmavano per gli scudetti e non per i bilanci, “impazzivano” per i gol e non per le plusvalenze e dove i presidenti erano i primi tifosi e non dei gelidi manager, un occhio ai conti e l’altro alle azioni in borsa. Se al calcio togli il cuore, rimane solo un pallone che rotola senza senso.

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De Laurentiis, parodia web

Sceicchi, indonesiani, cinesi, americani, fondi specializzati, società multinazionali, il calcio si è globalizzato, batte poco il cuore, batte soltanto la cassa. Prendete uno come Aurelio De Laurentiis, imprenditore nel settore cinematografico, che ha preso il Napoli dall’inferno e lo ha riportato all’anticamera del Paradiso, qualche sogno, piccole grandi soddisfazioni, un paio di coppe Italia, un bilancio sempre in attivo (grazie anche alla vendita sempre dei pezzi più pregiati). Dovrebbe avere un rapporto speciale con la città, dovrebbe essere amato, coccolato dalla sua tifoseria ed invece non è così. Per lui il calcio è come un film, il Napoli il suo cinepanettone, Napoli la location della sua ultima pellicola: non c’è quella sana pazzia che deve accompagnare un presidente di una società di calcio. Non c’è passione, non c’è vita.

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De Laurentiis, presidente – jolly

Toni Damascelli su “il Giornale” ha scritto di De Laurentiis. “ Gli piace assai apparire, sfilare lungo la sua passerella esclusiva, si fa spazio con il corpo e con le parole, alcune di grande effetto e di rarissimo affetto, manda a cagare i suoi sodali del football, insulta i giornalisti, se ne fotte dei protocolli e cerimoniali, ordina il silenzio stampa con Sky ma va all’incasso dalla stessa dei diritti tv dimenticando i doveri, prende a male parole l’Uefa e Michel Platini poi chiede i biglietti omaggio per le finali di coppa e quindi abbraccia il francese perché ” scurdammoce ‘o passate ” ma senza dire ” simm’e Napule paisa’ “, perché l’Aurelio è nato a Roma”.

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Pulvirenti, Lotito, Galliani

E come al gioco dell’oca torniamo al punto di partenza: il cuore.  Il presidente manager è uno che oggi sta qua domani da un’altra parte, dove c’è la prima società da prendere per fare affari. Quelli come Zamparini, prima presidente del Venezia poi del Palermo, Lotito (Lazio e Salernitana), Preziosi (Genoa, Como, Saronno), Spinelli (Livorno e Genoa), Cellino (Cagliari e Leeds United), Pozzo (Udinese, Granada e Wattford, cioè serie A, Liga e Premier tutto insieme allegramente…), Calleri (Lazio, Torino, Bellinzona), Pulvirenti (Agrigento e Catania) tanto per citarne alcuni, sono manager pieni di maglie, gente che gestisce aziende di gol e partite, prima i soldi, poi il cuore. Per loro dietro ad un pallone non rotolano sogni e speranze ma affari e conti in banca…

Sarà: ma volete mettere quei “ricchi scemi” che mettevano mano alla tasca pur di far felici i loro tifosi? Ma volete mettere uno come Achille Lauro, che amava andare in panchina, che si faceva il suo giro di campo agitando il suo fazzoletto bianco per salutare il pubblico?

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Achille Lauro

Come ho già scritto, il Comandante era imprenditore geniale, istintivo e impulsivo, che amava la politica e il calcio (e le donne, un inguaribile tombeur de femme, una caparbia ostentazione di machismo che lo fece diventare, fra la leggenda e la realtà, un insaziabile satiro dall’incontenibile voracità sessuale). Un uomo ricco, molto ricco, ma anche molto generoso che con il denaro, aveva un rapporto particolare: amava spenderlo e con entusiasmo per comprarsi il bello della vita; un leader troppo ingombrante che non poteva trovare posto in una formazione politica e che, allora, pensò bene di costruirselo tutto da solo un partito, andando contro corrente e contro la storia, dando vita ad un fenomeno politico-sociale che ha caratterizzato il suo tempo prendendo addirittura il suo nome, il laurismo. Un presidente padre-padrone che s’identificava con la squadra di calcio della sua città, un mecenate pronto a ogni follia pur di acquistare il top player del momento per regalarsi un sogno e per far sognare i suoi tifosi. Si, il Napoli era la sua passione, il suo tallone d’Achille…

Gigi Peronace (primo a sinistra) con denis Law

Gigi Peronace (primo a sinistra) con denis Law

Un giorno arrivò a Napoli Gigi Peronace, general manager del Birmingham e talent scout, (quello per capirci che portò in Italia Jhon Charles, Denis Law, Jimmy Greaves, Liam Brady) e Lauro gli offrì una scrivania nel “suo” Napoli. Il buon Peronace  presentò un sacco di progetti ed iniziative, si era dato davvero da fare: terminò con enfasi manageriale così la sua dettagliata relazione. “Tutto è calcolato, nei minimi dettagli. Presidente lei la domenica deve solo starsene comodamente in tribuna, non in campo, ad ammirare lo spettacolo”. Proprio questo voleva sentire il Comandante, figuriamoci senza andare in campo. “Stateve buono…” gli rispose congedalo per sempre.

Faceva e disfaceva, gli azzurri erano il suo giocattolo, un capriccio. Sia chiaro, anche uno straordinario veicolo di propaganda e di consensi, ma senza mai volerci ricavare una lira. Quattro decenni di calcio partenopeo sono stati vissuti  all’insegna, nel bene e nel male, di Achille Lauro. Una coppa Italia, vinta quando gli azzurri erano in serie B. Mitica impresa d’altri tempi, mai più ripetuta…

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Lauro e Jeppson

Grandi slanci, grandi campioni. A lui si deve l’acquisto-record di Jeppson. Il Comandante lo pagò 105 milioni nel 1952, prima cifra record del pallone: 75 milioni all’Atalanta, dove giocava, e 35 al calciatore su un conto svizzero. Un giornale lombardo titolò: “La Borsa di Milano si trasferisce al Vomero”. A Napoli fu definito “‘o banco ‘e Napule”, titolo che era già toccato a un giocatore degli anni Trenta, Colombari.

Ma non comprava solo campioni già fatti e collaudati. Viveva la vita d’istinto, ed era così anche nel calcio. E così quando Pasqualini, mediatore di calciatori con i mercati sudamericani, gli suggerì di prendere “au leau do Botafogo” non ci pensò due volte. L’idea di avere “’O lione” gli piaceva molto.

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Vinicio con la maglia del Botafogo

Ed arrivò così Luis Vinicio un ragazzone di 23 anni di un metro e ottanta, il viso dai lineamenti marcato, sempre un po’ ingrugnito. A quei tempi Lauro era sindaco di Napoli ( “un grande Napoli per una grande Napoli”), lo ricevette nella sua stanza a Palazzo San Giacomo e lo accolse con un ceffone memorabile. Dovettero trattenerlo Vinicio, prima che reagisse balzando sul Comandante. Gli spiegarono che il ceffone mollatogli da Lauro era un gesto di affettuosa simpatia. “Io stavo per colpirlo con un pugno”, svelerà poi Vinicio, che era un leone vero, sorpreso da quella accoglienza esagerata. “Mi trattenne Pippone Innocenti…”

didi-vava-pele-site-a-uallera-e-cane5 Una volta non c’erano i video, le società non visionavano migliaia e migliaia di calciatori, al massimo si mandavano delle fotografie.

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Faustinho Jarbas Canè

Josè de Gama, uno sveglio procuratore di calciatori sudamericani, spedì al Comandante una serie di foto di calciatori “trattabili”. Lauro le sfogliò con attenzione, poi ruppe ogni indugio. “Voglio prendere chisto, pecché è ‘o cchiu brutto. Chist’è niro, gli avversari si spaventeranno e lui farà i gol…”. Fu così che venne sceltopreso Faustinho Jarbas meglio noto come Cané. Si proprio quello di “Didì, Vavà e Pelè, sìt’ a uallera e Canè

 

 

 

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