di Ottorino Gurgo
Definire sconcertante lo spettacolo che la destra sta offrendo a Roma, è riduttivo. Si può dire che Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia non lascino passare giorno senza che dalle loro file non spunti una nuova candidatura alla carica di Sindaco della città e senza che su questa candidatura si scatenino polemiche roventi non soltanto tra queste tre forze (si fa per dire), ma anche al loro interno
Ma quel che sta accadendo a Roma non è che la riproduzione, magari in forma esasperata, di uno stato di malessere diffuso, In tutta Italia, dalle Alpi alla Sicilia, la destra appare in preda ad una crisi talmente profonda che ne fa addirittura prefigurare il dissolvimento. E’ una realtà della quale non c’è da rallegrarsi, quali che siano gli orientamenti di ciascuno perché l’assenza di una forza di destra turba gli equilibri della dialettica politica e crea, nel quadro complessivo, un vulnus che non porta giovamento ad alcuno.
Eppure, soltanto qualche anno fa, sotto la guida del suo leader carismatico, quella della destra appariva come un’armata quasi invincibile. Qual è, allora, la causa di questa precipitosa involuzione ?
Non crediamo di esser lontani dal vero nell’affermare che la dissoluzione della destra è in gran parte riconducibile al narcisismo del suo leader; un fenomeno, del resto, comune a tutti i capi carismatici che quasi sempre, quando dalla forza degli eventi sono costretti a farsi da parte, dietro di sé non lasciano che cenere.
Berlusconi, per quanti si identificano politicamente nella destra, ha avuto indubbi meriti: non si sta per vent’anni al potere, peraltro, senza essere dotati di una forte personalità. Ma ha avuto un torto assai grave, comune a tutti i personaggi a lui simili: quello di circondarsi di personaggi mediocri, sempre pronti ad assecondarlo, e di allontanare da sé anche brutalmente (basti pensare al “caso Fini”, ma molti altri se ne potrebbero citare).
Insomma, anziché preoccuparsi di preparare la propria successione, l’ex cavaliere ha badato unicamente a edificare il proprio “mito”, cosicché quando la forza degli eventi (l’avanzare degli anni e non solo) ha reso inevitabile il suo declino, si è accorto che dietro di sé non c’è che il deserto o, tutt’al più, un drappello di rissosi comprimari nessuno dei quali ha nello zaino il bastone di maresciallo.
E qui si apre un discorso che riguarda non soltanto Berlusconi e la destra, ma anche colui che viene considerato il suo più diretto “competitor”, vale a dire Matteo Renzi. Non c’è, in Italia, quella che potremmo definire “la cultura del team”, cioè della squadra in grado di affiancare il leader e, eventualmente di prepararne la successione. Il capo è quasi sempre un uomo solo e la scelta di coloro che devono affiancarlo, è di sua esclusiva pertinenza e ispirata soprattutto al desiderio di evitare che ci sia qualcuno che possa recargli ombra.
Fare ‘o gallo ‘ncoppa ‘a munnezza, dicono a Napoli. E’, questa, una visione miope che porta i nostri leader a scegliere, nella maggior parte dei casi, al vertice come alla base, personaggi mediocri. E’ accaduto a Berlusconi, accade a Renzi.
Ci viene alla mente John Fitzgerald Kennedy, passato alla storia come uno dei più grandi presidenti degli Stati Uniti. Ebbene, in massima parte, il suo successo fu dovuto alla qualità dello staff del quale seppe circondarsi. Non è un esempio da imitare ?