di Franz Krauspenhaar
Tre anni fa moriva Franco Califano. Un poeta dei tempi nostri per il quale cuore non faceva rima con amore. Un personaggio controverso, ma vero. Tre anni e mezzo di carcere, quattro mesi di isolamento, con solo quindici minuti d’aria al giorno: tutto da innocente
Sarebbe dovuto essere eterno, o almeno pareva potesse esserlo, perché quelli come lui hanno sempre qualcosa da dire e da fare. Invece è morto, e la cosa non solo non mi fa piacere, ma mi pare quasi impossibile. Metto il quasi davanti più che altro per salvare un pezzo di faccia. Che Franco Califano, ancora oggi dopo tre anni, sia morto mi sembra una specie di assurdo esistenziale. Certo, non stava facendo una vecchiaia serena, d’altra parte il buongiorno si vede dal mattino, e le sue mattinate erano state albe stanche vissute dopo una lunga notte brava.
Ne aveva combinate e subite di tutti i colori: romano del ’38, di origini salernitane, sarebbe stato un perfetto sessantottino della primissima ora, soltanto aveva avuto sempre un cuore anarchico e nelle mani teneva un solo stendardo, quello dell’Internazionale Football Club. Lui romano e cantore di larghi pezzi di romanità era tifoso del grande club milanese, per un innamoramento di bambino, di quelli definitivi.
Nella purezza, Califano viveva anche e molto il suo contrario, come tutti i poeti che si rispettano e anche che non si rispettano. Aveva vissuto la droga, la galera per spaccio, era stato amico di gangster come Turatello, non si era peritato di stare attento alle frequentazioni; in breve, aveva preso tutto a piene mani, pescatore di vita, di emozioni, di guai. Fine dicitore con l’accento greve del romanoderoma, cantante confidenziale erede dei lupi da crociera come l’altrettanto romano Bruno Martino, col quale aveva scritto uno dei suoi capolavori, E la chiamano estate.
Più poeta-paroliere che musicista, Califano metteva nei suoi dischi, tanti, e non tutti di altissimo livello – alcuni fatti con arrangiamenti tirati persino via – dei monologhi in romanesco e in lingua mista, in bastardese italo-romano, cose forti e divertenti che erano squarci di vita d’un nottambulo di professione. Era solo ma tutti lo conoscevano, era stato cacciato dalla società perché s’era guadagnato le mura di una prigione ma era risorto come un Cristo di polpa e terra piena. Aveva nemici duri ma anche amici che lo ammiravamo e lo amavano.
Non stava nel mezzo, non a centrocampo; era un centravanti della vita, spesso buttato fuori dall’arbitro, o sostituito senza un vero motivo dall’allenatore cialtrone. Tutto il resto è noia era la sua canzone manifesto, la dichiarazione chiara lucida e netta che nella vita nulla dura, soprattutto l’amore. E poi tantissime altre, a completare un tassello dietro l’altro il mosaico di un uomo che era tornato dal fondo del barile grazie all’imitazione del comico Fiorello, una specie di piccolo incidente televisivo che aveva fatto riscoprire questo grande cantautore, solitario e senza scuole, difficilmente catalogabile.
Era stato autore per gli altri, e poi autore per se stesso, mettendo in scena ogni sera la propria vita, perché non avrebbe saputo fare altro. La forma canzone era stata per lui la chiave d’interpretazione di ogni suo passo, il diario cantato ogni sera, lo sfogo indispensabile e la dichiarazione di ribellione. Amava profondamente le donne e le aveva cantate, messe su un piedistallo per poi farle scendere, ma sempre con una dolcezza vera, mai di contrabbando, sempre virile e fiera. Faceva la sua politica da solo, Franco Califano, nato – come dice in una sua canzone poco conosciuta – “in un aeroplano”. Sembrava non dovesse morire mai, e figurarsi negli ormai lontani anni Ottanta, quando era stato reietto e se ne parlavi alle donzelle dell’epoca – più che altro milanesi col palo nel culo – si facevano le loro smorfie di disgusto come se avessi parlato di Frankenstein con un’erezione cavallina.
Era molto più di moda la finta protesta del rock in tutte le salse, ma io e altri, qui dal nord, eravamo suoi accaniti fan ben prima della Pasqua di Fiorello. Così quando è morto io e altri non ci abbiamo molto creduto. Sì, è morto, va bene, ma senti questo pezzo del Califfo… E senti quest’altro, viene da L’evidenza dell’autunno, 1973…
La perdita viene come diluita, sono passati giorni e me ne rendo sempre più conto, che Franco non è più tra noi, lo guardo spesso in tv o su vecchi filmati di YouTube e non mi pare ancora vero, tutto mi sembra grossomodo invariato e non è vero che tutto finisce o invecchia. Perché tutto il resto è noia, la musica è finita, e gli amici se ne vanno. Ma lo stesso, nonostante tutto, la serata non è stata inutile, almeno questa volta.