Giuseppe Crimaldi

Giuseppe Crimaldi

Giuseppe Crimaldi, 54 anni, giornalista, scrive di cronaca nera e giudiziaria per Il Mattino. Autore del volume "Napoli è servita" e coautore dei libri "Il Casalese", "Al mio Paese - Sette vizi, una sola Italia" e "Mafie". Dirige il sito della Federazione delle associazioni italiane antiracket la rivista online "Lineadiretta". Collabora come docente al Master di Giornalismo dell'Università Suor Orsola Benincasa.

Libero-Grassi

Libero, liberi

di Giuseppe Crimaldi

Palermo, le 7,25 del 29 agosto 1991. Fuori fa già caldo ma Libero – Libero Grassi, imprenditore e titolare della Sigma, un’industria tessile che produce pigiami da uomo e fattura sette miliardi l’anno – è pronto per andare in fabbrica.

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Libero Grassi

Da mesi è nel mirino dei mafiosi del mandamento di San Lorenzo-Pallavicino che gli hanno imposto una tangente di 50 milioni: lui si rifiuta di pagare e sceglie la strada della denuncia facendo nomi e cognomi scrivendo una lettera al Giornale di Sicilia e poi andando in televisione, a Samarcanda, a raccontare il calvario di un imprenditore che si ribella alle mafie: “Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui”.

Giuseppe Crimaldi 2

Giuseppe Crimaldi

Qualcuno gli ha consigliato di parcheggiare la macchina lontano da casa e lui lo ha fatto, temendo che gli sgherri di Cosa nostra gliela possano far saltare in aria. Libero ha anche rifiutato la scorta e questo i due sicari che lo aspettano in strada lo sanno. Per questo hanno gioco facile nell’affrontarlo. Quattro colpi di rivoltella gli chiudono per sempre la bocca. Grassi muore solo, sul marciapiedi di via Vittorio Alfieri. Solo, come solo era  vissuto durante il tempo in cui era andato a denunciare a testa alta la mafia: tutti, a cominciare dai suoi colleghi e dai vertici di Confindustria Sicilia, gli avevano voltato le spalle.

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Ieri si è celebrato il venticinquennale della sua morte. Strano Paese, il nostro, nel quale devi morire per trovare attenzione o riabilitazione. Chi di Libero Grassi può invece parlare senza rischiare di cadere nella retorica delle commiserazioni postume è Tano Grasso, l’ex commerciante di Capo d’Orlando diventato il simbolo della lotta al racket: l’uomo che nello stesso periodo in cui Libero combatteva da solo in nome della legalità, a Palermo, organizzava nel Messinese la rete degli imprenditori messi sotto il tallone dei signori del pizzo; da quella formidabile esperienza di denuncia collettiva nacque il movimento antiracket, modello poi esportato con successo anche a Napoli e nelle altre regioni del Mezzogiorno e confluito nella Federazione delle associazioni antiracket e antiusura, di cui Tano è oggi il presidente onorario.

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Tano Grasso

Libero - dice – non deve rappresentare un’icona e tantomeno un eroe, perché cosi la lotta alla mafia rischia di diventare un alibi: ma è chiaro che per fare ciò che ha fatto lui bisognava avere un coraggio eccezionale. Io vendevo scarpe a Capo d’Orlando, lui difendeva la sua azienda; la sola differenza è che lui è stato ucciso e io no: perché lui era solo e noi invece ci organizzavamo in un movimento”.

Con le sue denunce Libero raccolse zero solidarietà e zero condivisione. Perché Grassi la sfida non la lanciò tanto ai mafiosi, ma ai suoi colleghi imprenditori, che uno dopo l’altro si voltarono dall’altra parte. E allora chiediamoci anche per quale motivo la mafia si assunse il rischio di ammazzare Grassi, che era diventato un simbolo: Cosa nostra si determina ad assassinarlo perché dal punto di vista mafioso non si era più di fronte a un “moralizzatore” ma a un simbolo di legalità”.

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Che paradosso, la mafia. “La sua forza – prosegue Tano Grasso – è quella di essere una struttura secreta, occulta, anche se poi tutti sanno chi sono i suoi uomini, mandanti ed esattori del racket in primis, come lo sanno i commercianti che si piegano e pagano il pizzo. A Palermo per almeno 15 anni dopo l’uccisione di Libero gli imprenditori che denunciarono gli estorsori si contarono sulle dita di una sola mano. Furono solo in cinque. E questo ci spiega che con quell’omicidio la mafia ci guadagnò…”.

Ecco che cos’è il pizzo: molto più di una rata da pagare per la “protezione”. Il pizzo è il riconoscimento dell’omertà mafiosa. E questo Grassi lo aveva intuito già 25 anni fa. Ecco perché, sorridendo, quando parlava di sé spiegava: “Non mi hanno battezzato con un nome ma con un aggettivo”.

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