Adolfo Mollichelli

Adolfo Mollichelli

Giornalista. Ha lavorato con il Roma ed il Mattino. Ha seguito, tra l'altro, come inviato speciale cinque Mondiali, altrettanti Europei, nove finali di Campioni-Champions e l'Olimpiade di Sydney

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Il mio divino Roger

 di Adolfo Mollichelli

Ne ho visti di campioni nel tennis, da Rod Laver che disegnava traiettorie impensabili a Borg l’hippy ai ragazzi terribili Sampras ed Agassi, fino ai “mostri” degli ultimi tempi: Nadal, Djokovic, Murray, Wawrinka. Ma soltanto uno mi ha indotto al tifo sperticato mostrandosi ai miei occhi come il campione, direi fuoriclasse, forgiato nella palestra degli Dei: Roger Federer, lo svizzero gentile mai sopra le righe, capace di alternare tutti i colpi possibili – ed anche quelli impossibili – con la racchetta che impugna con soave dolcezza.

Divino nel gioco eppure umano nella sofferenza cui l’età non più verde (35 anni) e qualche acciacco di troppo l’hanno recentemente costretto. Di dolori, di sofferenze patite in seguito ad interventi chirurgici ne sa qualcosa anche Rafa Nadal il maiorchino, l’altro stupendo interprete della finale di Melbourne.

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Roger Federer

Roger è sempre lo stesso, fisicamente parlando. Eccezion fatta per la capigliatura che negli anni giovanili era raccolta in un codino più simile ad un tuppo. Rafa no, è cambiato. Era un torello, robusto e fiero. E con una chioma corvina fluente.

Ebbi modo di vederlo da vicino in occasione del match di Davis che Spagna e Italia disputarono a Torre del Greco. Aveva il braccio sinistro che era quasi il doppio di quello destro, il divin mancino. Il direttore mi chiese di scrivere un pezzo di colore, mi venne l’idea – che fu apprezzata dai lettori, bontà loro – di descrivere “Nadal in casa Cupiello“. Ora, l’aspetto fisico di Rafa è mutato: è magro, fa quasi tenerezza ma è tornato il campione che è sempre stato.

Povero il mio Roger, ho pensato, sarà dura rimettere un po’ a posto i conti tra te e lui. Perché – lo saprete – il “mio” Roger ha spesso patito lo spagnolo con la bandana che ti frigge già quando è il suo turno di battuta con quello snervante tic: tocco al lobo dell’orecchio sinistro, poi il naso, quindi il lobo dell’altro orecchio e infine un tocco dietro come ad allargare i pantaloncini che ora gli stanno larghi.

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L’uman-divino Roger – prima della finale epica degli Open di Australia – era stato battuto da Rafa per ben 24 volte su 35 scontri diretti. Capito? il “mio” Roger per arrivare alla dodicesima vittoria contro il maiorchino – rivale e amico – di 5 anni più giovane, dopo 6 mesi di inattività, doveva aggrapparsi a qualcosa per vincere il suo diciottesimo Slam. E che cosa credete che abbia fatto? Semplice, s’è consegnato al suo istinto, che è quello che hanno tutti i predestinati, tutti coloro che hanno diritto al seggio fisso attorno alla tavola degli immortali dello sport.

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Federer e Nadal

Avevo consegnato a facciadilibro che ti chiede sempre a cosa tu stia pensando, questo post: vorrei essere un musicista per comporre una sinfonìa immortale dedicata a Roger. E l’amico Gianpaolo Santoro, direttore, mi aveva subito stimolato: invece che sul pentagramma, scrivi un pezzo sulla tastiera del computer. Ma non è facile, direttore, scrivere di un sentimento. Sostengono gli esperti che il “mio” Roger ha prevalso sul rivale di sempre con due armi decisive: la risposta ed il rovescio. Per carità, alzo le mani. Ma di mio aggiungerei che lo svizzero gentile ha messo a segno una catena di aces inimmaginabile. E perché? perché è come se avesse voluto accelerare i tempi di gioco di una maratona estenuante.

Perché il “mio” Roger è immenso anche nell’umiltà e sono sicuro che stesse ragionando in questi termini: devo andare di fretta, altrimenti questo demonio di Rafa mi frega. La semplicità e l’umiltà dei grandi.

Roger Federer of Switzerland kisses the winners trophy after defeating Andy Murray of Britain in their men's final tennis match at the Wimbledon Tennis Championships in London

A proposito, mi viene da paragonare Roger ad un altro immenso campione, del calcio. A Robertino Baggio, sì al divin codino. Entrambi acqua e sapone, i ragazzi della porta accanto, lo sguardo dolce, mai sopra le righe. Roger, quando un punto è contestato, non accenna mai a proteste vistose. Non litiga con il giudice di sedia. Non scaglia lontano la racchetta quando sbaglia un colpo semplice. Tutt’al più si produce in una schienata quasi timida o gli scappa una lacrima quando compie un’impresa che gli avevano fatto ritenere difficile se non impossibile. E mi chiedo se Roger sia immenso proprio perché non ritiene di esserlo. Anche Baggio era così. Ha composto odi sui campi di calcio e mai una levata di testa. Mai a ricordare ai suoi detrattori che a 16 anni gli avevano detto: guarda che senza i menischi non andrai lontano.

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Che mostruosità le classifiche del ranking. Pensate: il “mio” Roger dopo la vittoria-monstre a Melbourne è arrivato al settimo posto! Capito? settimo, lui che è l’icona del tennis, che continua a disegnare magìe e con una mano sola! Quanto odio i bimani! quei campioni che – specie nel rovescio – si legano alla racchetta e a me appaiono più simili ai lanciatori del martello che a tennisti.

Roger no, lui non ha bisogno di legarsi all’attrezzo. Perché la racchetta la comanda con il pensiero ed è un pensiero lieve, dolce. Divino, umano e con una mano sola. E il cemento, la terra e l’erba – indifferentemente – gli scivola sotto ai piedi che a volte non toccano il suolo.

Quando il “mio” Roger avrà deciso di smettere, molto probabilmente seguirò il tennis facendo zapping.

 

 

 

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