di Gerardo Mazziotti -
Sono d’accordo con Sandro Raffone che gli architetti sono in genere eccellenti affabulatori capaci di coinvolgere gli studenti, convincere i clienti e suggestionare i politici ; però c’è un ambito in cui l’eloquenza non colpisce : è il cantiere napoletano dove tutt’oggi vige una gerarchia ferrea e dove gli architetti sono misurati e giudicati in modo implacabile.
Ebbene, da muratori, carpentieri, stuccatori, marmisti, fabbri e falegnami, cioè da mastri consapevoli delle loro arti, Pagliara è riconosciuto un Maestro. E io condivido. E considero Pagliara anche un raffinato, elegante, affascinante scrittore, come ha dimostrato con il libro “ La felicità di essere”, che è il racconto della sua vita avventurosa.
Penso di dover ricordare che negli anni ’60 decidemmo di partecipare al concorso nazionale per la progettazione dell’ Ospedale generale di Reggio Calaria.
Lo perdemmo per lo scarso valore estetico del compromesso tra due mondi figurativi totalmente diversi : lecorbusiano il mio e wrightiano il suo. E da allora decidemmo di non progettare più nulla insieme.
Convinto che l’architettura è un’arte, come la pittura, la scultura, la musica, la poesia, ho sempre sostenuto che è l’espressione di un singolo e non di una pluralità di autori ( lo dimostra la storia millenaria dell’architettura).
Ed essendo un’arte non si può insegnare a diventare architetti, come non si può insegnare a diventare pittore, scultore, poeta e scrittore. Si può e si deve insegnare la “teknè” (l’insieme di norme che soddisfano le finalità pratiche : riparare dal freddo e dal caldo, dalla poggia e dal vento, a isolare dai rumori e dallo smog, a rendere gli edifici durevoli, funzionali, resistenti ai terremoti e così via).
Ma non si può insegnare a renderli “ capaci di trasmettere il messaggio della bellezza”. A renderli cioè “architettonici”.
Nicola era convinto del contrario ( come tutti i docenti di composizione architettonica). Tant’è che tutta la sua vita di docente universitario l’ha dedicata alla formazione dei futuri architetti.
E quanti dei suoi migliaia di allievi lo sono diventati ? Certamente non tutti. E sulla funzione sociale delle facoltà d’architettura abbiamo polemizzato per decenni.
Il ricordo del mio amico Nicola mi consente di ripetere tutto il male che penso della così detta architettura contemporanea. La quale, da qualche decennio, è all’affannosa, disperata e disperante ricerca di una sua identità in una babele di linguaggi. Post-modern, cheap- scape, plasticismo, decostruttivismo, hi-tech, minimalismo, neo-razionalismo e neo-classicismo.
E ,addirittura, la ciber-architettura, scaturente dai supercomputer. Con risultati deliranti.
Al punto da far dire al grande architetto brasiliano Oscar Niemeyer, scomparso qualche anno fa,“ L’architettura contemporanea mi fa orrore perché ha smarrito il senso della bellezza”
Ma anche l’architettura di Nicola Pagliara è contemporanea. Però non si ispira a nessuna delle tendenze di cui ho fatto cenno.
Razionalista, costruttivista, futurista, organica ma soprattutto espressionista l’opera di Pagliara è difficilmente classificabile, ma forse, come lui stesso dichiarava, si può raggruppare per i materiali che la connotano: cemento, pietra, ferro, e poi gli intonaci, il marmo, il legno e i materiali di finitura come l’ottone e perfino l’argento cui però preferisce l’oro, specie negli arredamenti”. .
Con Pagliara non scompare solo un architetto di talento.. Scompare un napoletano, nato ottantatré anni fa a Roma, che ha amato questa città in modo appassionato cercando di risolvere i suoi centenari problemi. Senza riuscirci.
E nessuno di noi ci è riuscito. Tant’è che sono ancora “penosamente irrisolti”, come denuncia il presidente emerito Giorgio Napolitano. Ma ne ha migliorato l’immagine con alcune opere mirabili, oggetto di ammirazione dei napoletani amanti del bello.
Con Nicola Pagliara scompare un amico di cui sentiremo forte la mancanza.