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Ritorno al futuro
Ripartiamo dalla napoletanità

di Gianpaolo Santoro

Rifare “il napoletano” è per me come riannodare i fili del destino. Quarant’anni fa, appena ventenne, dopo qualche anno di “abusivismo ufficializzato” al Roma, così come si usava una volta nei giornali per fare una selezione naturale alla professione, iniziai a fare sul serio col giornalismo proprio con la rivista “il napoletano”.

Mimmo Carratelli, che era l’inviato di punta di quel glorioso Roma, un giorno arrivò in redazione e mi disse sorridendo. “Ti porto le congratulazioni di alcuni colleghi. Il tuo pezzo sui D’Inzeo era proprio buono…” Avevo superato il limbo del giornalismo ombra.E, qualche tempo dopo Mimmo, ricevuto l’incarico di direttore de “il napoletano” (consulente letterario Domenico Rea) mi volle con lui in una rivista che nella forma, nei contenuti, e nelle firme, non esito a definire unica ancora oggi, nel panorama editoriale cittadino. Scrivevano Gaetano Afeltra, Giovanni Arpino, Maurizio Barendson, Carlo Bernari, Giorgio Bocca, Carlo di Nanni, Antonio Ghirelli, Ugo Leone, Giglio Panza, Salvatore Rea, Mario Soldati, Giorgio Tosatti, Maurizio Valenzi e tanti altri: napoletani vicini e lontani, napoletani di nascita e napoletani d’anima. Ma soprattutto napoletani che non si rassegnavano all’icona dell’homo neapolitanus, quella dell’uomo furbo che affianca ad una enorme massa di vizi e di difetti un codice genetico zeppo di istrionismo, astuzia e scaltrezza. Qualcosa di più ormai di una sola credenza popolare, una sorta di tautologia, quella di un popolo che “ non chiede l’elemosina, ma la suggerisce” come scriveva Longanesi.Eravamo solo in due in redazione, eppure la rivista era un’esplosione d’idee e di opinioni, un dibattito aperto in una città chiusa.Napoli è ricca di contraddizioni sfugge da ogni regola o canone prestabilito, la si può amare o odiare, decidere di viverci o di lasciarla, ma non la si può mai dimenticare od ignorare. Una vecchia capitale mai diventata una vera metropoli, prigioniera di se stessa, segnata si da mali endemici e colpevoli ritardi del governo centrale, ma anche perennemente in mano, come sottolineò Salvatore Di Giacomo, a gente senza ingegno, senza cuore e senza iniziativa. Un classe politica e manageriale incapace, nel tempo, di costruire nel segno dello sviluppo, un futuro solido e concreto.Ed allora è questo il cuore del problema, l’interrogativo principe: i napoletani in che modo e quanto hanno saputo scrivere il loro destino, sono in poche parole, vinti o di vincitori? Un popolo, come scriveva Percy Allum “convinto di vivere in un mondo ostile, sul quale non è in grado di esercitare alcun controllo…” o un popolo, come sosteneva Pasolini, “che ha deciso di estinguersi pur di restare fino all’ultimo se stesso, cioè irripetibile, irriducibile ed incorruttibile”?Quaranta anni fa Giorgio Bocca su “il napoletano” scriveva di Napoli e candidamente confessava di “non averci capito niente”. Non era ancora “l’antitaliano” che vedeva nella nostra città uno dei paradigmi di quell’Italia corrotta, cinica, criminale, figlia degenere dell’antifascismo, che il caotico sviluppo economico degli anni ’60, il “miracolo all’italiana“, aveva definitivamente depravato; ancora non era il Bocca del velenoso libro “Napoli siamo noi”, feroce atto d’accusa nei confronti della napoletanità, quella che poteva essere una grande risorsa e che si è trasformata in un grande limite, “folklore che copre l’insipienza del disordine, finta solidarietà che copre il perdurante sfruttamento dei deboli questa napoletanità risulta francamente repellente, indegna di una grande città civile.“Ed Antonio Ghirelli, scugnizzo di Chiaia, maestro di un giornalismo che non c’è più, sempre su “il napoletano”, volle con forza rimarcare, invece, l’inestimabile autolesionistico spreco d’intelligenza che da sempre affligge la città, lo svuotarsi continuo di energie e risorse, di speranze e di sogni. “Il nostro carbone, il nostro petrolio, il nostro uranio, sta dietro gli occhi neri ed ardenti dei “guaglioni” che oggi sono costretti allo scippo, all’elemosina o al lavoro super sfruttato per conciliare il pranzo

con la cena. Guai a noi, alla nostra società, alla nostra democrazia se continueremo a trascurare questo tesoro sommerso, come i galeoni carichi d’oro del mar dei Caraibi, sui fondali del golfo”.

Sono passati quaranta anni e la spietata fotografia, seppur da angolazioni diverse, che i due grandi cronisti hanno fatto di Napoli è ancora drammaticamente d’attualità. Anzi è decisamente peggiorata. Così come non è mutata quella speciale condizione dell’animo, detta napoletanità. Un alibi che, ormai, non ha più senso procrastinare, una ipocrisia che non è più sensato perpetrare.

La tesi di Raffaele La Capria che la borghesia napoletana è rimasta traumatizzata dalla rivoluzione del 1799 (e dalla feroce repressione sanfedista con la strage di migliaia di persone) e che vive nel terrore che la bestia plebea si possa risvegliare e la divori, la teoria della doppia nazione, il popolo alto e il “popolo dei vicoli” e la necessità costruire un’identità e un patrimonio comune, un modo di essere napoletani comune e condivisibile da tutti: il napoletano come lingua, le canzoni, le superstizioni, la squadra di calcio, la pizza, Pulcinella, i maccheroni, il teatro di Viviani e di Eduardo, il cielo, il caffè ed i colori del Golfo, l’intelligenza fuori dalla norma, naturalmente la furbizia congenita, può ancora, insomma, tutto questo che viene condensato semplicisticamente con il termine napoletanità essere l’alibi di un perenne sottosviluppo, l’oblio della speranza? E si può continuare a credere che esistano due Napoli, una delle persone perbene ed una della camorra, che non si sfiorino, che non vi sia alcuna interdipendenza, una cultura a volte tollerante al punto tale che possa sfiorare la complicità?

Quando si analizza il fenomeno camorra, ha osservato l’antropologo Marino Niola, viene sottovalutato il peso dei fattori culturali di cui la borghesia, e prima di lei l’aristocrazia, sono, se non responsabili, complici come il culto della furbizia e del raggiro, la prepotenza e l’arroganza del più forte, l’affermazione del proprio “particulare”, del proprio io, il doppio gioco fra superstizione e religione, fra tradizione e modernità. Diceva Benedetto Croce, “A Napoli non si è ancora cominciato a portar via le immondizie del Duecento”. E questo nei vicoli come nei palazzi nobiliari o nei quartieri residenziali.

Il napoletano vuole riannodare i fili della Memoria, riprendere da dove aveva terminato. Un ritorno al futuro. Ed è per questo che rimettiamo al centro della discussione il mito della napoletanità. Vogliamo fare un web magazine aperto, senza confini ideologici ed essenziale nel suo punto di vista. Ecco, noi ci sforzeremo sempre di avere un punto di vista. Il che, naturalmente, non significa assolutamente pretendere di essere depositari della verità, tutt’altro. Significa che vogliamo continuare a mettere sul tavolo, di volta in volta, argomenti di discussione in una città in eutanasia che ormai si dilania solo fra sensi unici, isole pedonali e feste di piazza. Sul nulla, o quasi.

E vogliamo farlo facendo anche del citizen journalism, una forma di giornalismo con la “partecipazione attiva” dei lettori, grazie alla natura interattiva della Rete.

Nell’incipit de “La morte della bellezza” Giuseppe Patroni Griffi faceva l’elogio della memoria. “Quant’era bella Napoli quarant’anni fa”. Sotto i bombardamenti, senza le luci, per via dell’oscuramento, in quelle notti lunghe di paura fra ricoveri e incursioni aeree. Nella memoria di Patroni Griffi la Napoli sotto i bombardamenti era meglio della Napoli che si è vista dopo. E non solo perché, nell’ottica del ricordo, il passato è sempre meglio presente. Era una citta viva eppure ogni giorno si scommetteva contro la morte. Istinto di sopravvivenza, si potrà dire. Oggi sembra sia svanito anche questo.

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