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Il califfo buono

di Gianpaolo Santoro

In questi giorni in cui non si parla d’altro che di tale Abu Bakr al-Baghdadi, (fra tanti ice bucket challenge, ci vorrebbe davvero per lui una doccia gelata per placargli i sanguinari bollori) leader dell’Isil, califfo alla guida di un emirato a cavallo tra la Siria e il nord dell’Iraq. L’uomo che nei cuori folli e nella speranza malata di sconfiggere l’odioso Occidente ha ormai soppiantato Ayman al-Zawahiri, l’egiziano che guida al-Qaeda e che se ne sta rintanato nell’area al confine tra Pakistan e Afghanistan, senza spargere platealmente sangue, odi e rabbia nel nome dello Jihad, della guerra santa.

In questi giorni che l’azzurro Mediterraneo si colora di rosso sangue, e che sentiamo ancora di più la mancanza dei libri illuminanti e dei reportage straordinari di Oriana Fallaci sull’Islam e sull’Apocalisse, voglio blasfemamente parlare, proprio per tigna, di un altro Califfo, un poeta  dei tempi nostri per il quale cuore non faceva rima con amore.

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“Un’estate fa non c’eri che tu, ma l’estate assomiglia a un gioco, È stupenda ma dura poco… “ (Un’estate fa, 1992). Fra qualche giorno avrebbe compiuto 76 anni. Franco Califano, il califfo.

Io e Franco eravamo amici.  Lo conobbi per una intervista durante i suoi “domiciliari lavorativi” del processo Tortora, in pratica aveva il permesso di poter fare alcuni concerti per guadagnarsi da vivere (negli ultimi anni di vita presentò anche richiesta per il sussidio statale, invocando la legge Bacchelli).  Organizzò l’incontro Mario Savino, un ex tipografo del Roma, poi agente di spettacolo e conduttore televisivo. Ci incontrammo in una casa a Fuorigrotta, parlammo a lungo. Ed il giorno dopo mi chiamò al giornale, ringraziandomi. “ Non sono un santo, non sono un camorrista” avevamo titolato in prima pagina al “Mattino”. E lui era così.

Califano aveva l’esigenza di essere raccontato per quello che era. Sembra una banalità. Ma non avete lavorato ai tempi del processo Tortora, per di più a Napoli, nel primo giornale del Mezzogiorno, e con una Procura assetata di prime pagine. Quel clima, in poche parole, che confezionò il processo mostro per eccellenza della storia italiana, l’apoteosi del pentitismo. E, da allora, nulla fu più lo stesso nelle aule di un tribunale.

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Franco ed Eros Turatello

Franco non era uno stinco di santo, sniffava spesso ed anche volentieri, viveva di notte, le sue amicizie nascevano nei night, fra i divani impregnati di whisky e le luci basse e diffuse.. O nelle carceri, nelle celle impregnate di piscio e di disperazione. Come quella che nacque con Francis Turatello, “faccia d’angelo”, boss della mala milanese che venne ucciso, a 37 anni, nel casa circondariale nuorese di massima sicurezza di Badu ‘e Carros. Lo accoltellarono e lo sventrarono. Del commando omicida faceva parte anche Pasquale Barra, ex luogotenente di Raffaele Cutolo, “o ‘nimale” : spaccò a calci il torace di Turatello e si mangiò il cuore. Barra è stato uno dei testi chiave al processo Tortora, uno dei principali accusatori.

Un’amicizia, quella con “faccia d’angelo”,  che Califano non rinnegò mai, anche quando gli avrebbe fatto comodo prendere le distanze, quando intorno a lui, “camorrista ex ergastolano” si era fatto il vuoto. Anzi. Il bambino biondo che tiene in braccio sulla copertina diTutto il resto è noia”, (per la quale dall’Università di New York ha ricevuto la laurea honoris causa in Filosofia), è Eros Turatello, il figlio di Francis. “Mi feci promettere solennemente che non avrebbe ripercorso la vita del padre. E non l’ha fatto. Ora è sposato e fa l’agente di viaggio… ”

Fanco-Califano-2Califano si è fatto mille giorni in carcere. Coinvolto in due processi. Finì in cella la prima volta nel 1970 per possesso di stupefacenti, in un’altra vicenda giudiziaria vergognosa, quella che coinvolse Walter Chiari  (e molti protagonisti dello spettacolo tra i quali Lelio Luttazzi, tutti regolarmente assolti) ed una seconda, nel 1984, per possesso di stupefacenti e associazione per delinquere di stampo camorristico nell’ambito del maxi processo alla Nuova camorra organizzata, il processo Tortora. In entrambi processi, assolto per non aver commesso il fatto. Califano non ha mai avuto neanche una scusa.

“Mi sono fatto tre anni e mezzo di carcere, quattro mesi di isolamento, con solo quindici minuti d’aria al giorno: tutto da innocente. E sempre da comparsa. Il processo Chiari, il processo Tortora, neanche un processo tutto per me… ” mi diceva scherzandoci sopra. “Quando sono arrestato, prime pagine, foto, titoloni, di tutto di più. Quando sono stato scagionato su tutto, perché non c’entravo niente, il buio più totale. Il silenzio. Non l’ha saputo nessuno.”

L’accusa di Napoli l’aveva segnato molto. Suo padre era di Pagani, lui aveva vissuto da ragazzo in terre di malavita, sapeva benissimo cos’è la camorra. E per questo soffriva per quell’accusa infame di essere considerato stato camorrista. “ Falso , tutto falso” mi ripeteva a quel nostro primo incontro. “Io ho vissuto di notte, nei night, ed in giro, si sa c’è di tutto. Ho cantato ovunque mi hanno pagato, anche nei paesi e nelle feste di piazza, dove non lo escludo ci saranno stati anche camorristi. Io ho comprato e pagato sempre la cocaina. Ma non ho mai avuto a che fare con la malavita. Mai…”

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Califano, le manette

Quel processo scandaloso, per il quale recentemente si è anche scusato pubblicamente ma tardivamente Diego Marmo, pubblico ministero del tempo, lo faceva impazzire. “Sono finito in galera per le accuse di uno (Melluso) che neanche conoscevo. Lo vidi la prima volta quando ci fu il confronto in tribunale.  “Franchino, Franchino, su dai, dicci la verità…” mi ripeteva con una faccia da schiaffi… Era di fronte a me, ed aveva un sorrisetto beffardo. “Sei scemo, rispondevo, sei solo un bugiardo”. E imploravo i giudici: ma come fate a fidarvi della parola di uno come questo? Perché non andate a verificare, se ha detto la verità…”Non se n’è mai fatta una ragione. Non riusciva a capire. Ma il processo Tortora è stato qualcosa di infernale: c’era una “verità” ufficiale, quella dei pentiti. Eppure sarebbe bastato poco, ma davvero poco, per smascherare una montagna di fandonie.

“Pensa questo farabutto ha detto di avermi consegnato “chili” di roba a casa mia, in Corso Francia, nel sottoscala del numero 84. Ma io in corso Francia non ho mai abitato…” E non è tutto: dopo si scoprì che al numero civico 84, neanche esisteva un sottoscala. Bastava andare a verificare nel centro di Roma, mica bisognava fare chissà cosa. Ma non c’è da scandalizzarsi. Non si facevano indagini, si registrava solo quello che affermavano i pentiti. E si arrestava. Un dato sconvolgente, di una storia terrificante: 144 arrestati risultarono omonimi di presunti camorristi indicati dai “pentiti”. Si fecero un mese e più di galera: del clamoroso scambio di persone se ne accorsero solo dopo 40 giorni.

imagesCAXDDB1ZStabilimmo un buon rapporto di amicizia. In quegli anni ogni volta che veniva a Napoli, ed era possibile per i reciproci impegni,  andavamo a cena insieme. Era una sorta di rito. Lui amava andare ad un ristorante di via Orazio, la Sacrestia. Si parlava di tutto, certo anche di donne, e come poteva essere diversamente? Lui ne aveva avute sempre tantissime, circa duemila si vantava, e si considerava un vero esperto in “materia”. Scrisse anche tre libri sull’argomento: Il cuore nel sesso , Sesso e sentimento e Calisutra, il suo kamasutra personale. Parlavamo di tutto, dei suoi dischi, del mondo dello spettacolo, delle macchine che erano la sua vera passione, di politica. Califano era un craxiano di ferro. Quando era in carcere gli scrisse anche una lunga. “ E Bettino mi rispose, si interessò. Mandò un deputato a venirmi a trovare in prigione per vedere come stavo, come ero trattato. Craxi era un galantuomo. Aveva quella maschera da cinico ma, invece,  sapeva commuoversi anche se la gente non l’ha mai saputo. Lui non amava far trapelare i suoi sentimenti. Sul piano politico, il socialismo, quello vero, moderno e riformista è stato lui. Un altro pianeta”.

Una volta fu anche candidato alle politiche, nelle liste del Psdi. Gli affibbiarono lo slogan: “Per una malavita migliore”. “Mi usarono soltanto, sfruttarono il mio nome e le mie canzoni. Mi mandarono a perdere nella provincia più remota”. Franco ce l’aveva a morte con i comunisti. Una delle volte che l’ho sentito più incazzato fu quando il Partito dei comunisti italiani come slogan della Festa nazionale della cultura usò Tutto il resto è noia.  “Ma ci credi? Non sono mai stato invitato non dico ad una festa dell’Unità, ma nemmeno alla sagra di una falce o di un martello, e poi se so’ pure rubati la mia canzone più famosa…”.

imagesCAB3BNO7Ma il nostro argomento principale, era sempre uno. Avevamo un grande amore in comune l’Inter. Una volta mi portò a vedere la cartolina che i giocatori nerazzurri gli spedirono quando era in carcere. “Fu Giacinto Facchetti a farla firmare a tutti, ad uno ad uno…” La conservava gelosamente. Uno dei suo giocatori preferiti era Zenga. Una volta mi chiese? “Ma tu lo conosci Gianmaria Cazzaniga?” “Certo che lo conosco, è stato uno dei più grandi di una generazione di giornalisti sportivi che non esiste più…”  “Ed allora appena puoi lo devi ringraziare da parte mia. Una volta dopo una eccezionale partita di Zenga lo soprannominò, il Califfo. Accostò il mio nome a Zenga, il più grande di tutti…”

Passavamo ore a parlare di calcio, eravamo sempre dalla stessa parte, stessi idoli, stessi ricordi, stesse speranze, d’accordo su tutto. Tranne che su Maradona. Lui era molto amico di Diego. A Baires al matrimonio di Maradona Lucio Dalla e Peppino di Capri non si presentarono, Franco si (c’era pure Fausto Leali) con il suo bel disco d’oro in regalo. Ci vedemmo di sfuggita a Baires, io dovevo raccontare altro, andai a Villa Fiorita, borgata popolosa e popolare della periferia di Buenos Aires dove Diego era vissuto sino a qualche anno prima, una zona che solo da poco tempo aveva avuto l’energia elettrica. Nella vecchia casa rosa pallido segnata da crepe che sembravano ferite che era stata l’abitazione del campione abitava una sua cugina, Maria, sorella della madre. Diego non aveva invitato nessuno a quel suo matrimonio kitsch, sotto il tendone di un circo Luna Park, dopo essere stato rifiutato dagli alberghi e dai circoli più esclusivi. In quelle bidonville si sentirono traditi. Franco rimase colpito. Lui non abbandonava mai nessuno. Neanche da morto. Non è un caso che sulla sua lapide al cimitero di Ardea sia scritto “Non escludo il ritorno”.

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La bara, la maglia dell’Inter

 

 

 

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