di Gianpaolo Santoro
Non ho mai ceduto alla fascinazione del movimento 5Stelle. Ma non l’ho mai demonizzato. E, soprattutto, l’ho sempre rispettato. Lo stesso atteggiamento che ebbi vent’anni fa con la Lega, quando molti stupidamente la deridevano e ne profetizzavano lo scioglimento, il tempo d’un soffio. Oggi la Lega è il più vecchio partito italiano. Rispetto sempre e comunque il voto. Si chiama democrazia. Indigesta a molti
Viviamo in un Paese dove da sempre c’è chi si arroga il diritto di giudicare il voto e con intollerabile snobismo separare quello maturo e consapevole da quello populista e di pancia, quello sano da quello malato, quello utile da quello inutile, quello progressista da quello conservatore. Un insopportabile atteggiamento in totale disprezzo della volontà popolare. Un’oligarchia strisciante.
Non ho mai subito la fascinazione di Grillo e del povero Casaleggio eppure l’esaltante vittoria di Virginia Raggi e Chiara Appendino, confesso, mi ha in qualche modo, entusiasmato perché figlia di un voto d’opinione (non ha importanza se giusta o sbagliata) senza incrostazioni clientelari e di potere che in una tornata amministrativa hanno di solito un valore determinante.
Due donne, e già questo non è poco, senza padrini, correnti, poteri più o meno forti. Una bella differenza con le varie Moretti, Bonafè, Picierno, Mosca, Chinnici, la svolta rosa studiata a tavolino dal Pd alle europee, giovani leader presto evaporate, svanite nel nulla. Comparse, impalpabili, di loro già non c’è traccia.
Due ragazze semplici, solari, fragili, emozionate. Normali. La Raggi quando si è affacciata dal balconcino del Campidoglio, fiera e visibilmente tesa, è scoppiata a piangere. L’Appendino ha appena trattenuto le lacrime nella notte della svolta di Torino e poi per la tensione si è presa un febbrone e si è messa a letto per tre giorni.
Due semisconosciute, scelte da un movimento, ai miei occhi, sgangherato e pieno di difetti, una rete piena di buchi. Incomprensibili primarie con un clic danno vita ad imprese che hanno una vena di follia. Come si poteva non candidare a Roma Di Battista, er Diba caciarone e mattatore, che tanto piace alle mamme e alle figlie per far posto ad una ragazza non abituata ai riflettori, tutta da scoprire?
E come si fa ad affidare ad una ragazza senza esperienza la madre di tutte le rogne, il governo della Roma di mafia Capitale, la città più incancrenita del Paese (purtroppo insieme a Napoli), una missione quasi impossibile? Ci vuole, dicevamo, una vena di incomprensibile follia.
Peggio di quanto fatto nell’ultimo decennio, si dirà, non è possibile. E sostanzialmente è vero. Ma non basta. Si pretenderà, non so quanto a ragione, in breve tempo di rendere palpabilmente vivibile la città, non soltanto di tappare le buche della metropoli gruviera e far funzionare i trasporti in modo appena appena decente. Che se poi la vogliamo dire tutta, le scandalose (anche se con sfumature diverse) parentesi di Marino ed Alemanno, sono solo l’epilogo di amministrazioni dissennate e spendaccione conti alla mano. Tredici, forse sedici miliardi di debiti, non lo sanno neanche loro, che vengono da lontano. Alla fine degli anni novanta tanto per dirne una, magia del Giubileo, piovvero sul Campidoglio più di 3 mila miliardi di vecchie lire, un maquillage eccezionale nel nome del Signore. Eppure Roma, dopo solo sedici anni è moribonda. Ma guai a scalfire le icone Veltroni e Rutelli
La Raggi passerà, vedrete, buona parte del suo tempo in Procura. Ogni volta che aprirà il libro di una municipalizzata sarà costretta a portarlo al vaglio della magistratura. Dovrà isolare il Campidoglio da lobby, terrazze, salotti, palazzinari, massoni, malavitosi, gran commis e uomini della casta. dovrà continuamente preoccuparsi di sancire la totale discontinuità col passato più o meno recente. Pensate solo quello che ha fatto il commissario straordinario di Roma Francesco Paolo Tronca che a poche ore dal ballottaggio ha pensato bene di firmare una raffica delibere di riconoscimento di debiti fuori bilancio e di lavori urgenti che hanno aggravato ancora di più del dovuto la posizione finanziaria del comune più indebitato di Italia. Una bella pugnalata alle spalle.
E lo stesso discorso vale per Torino, dove l’Appendino avrà il compito di affermare l’indipendenza da quel che resta del potere del mondo Fiat e dalla ramificata e capillare rete di controllo nelle municipalizzate del vecchio Pci.
Chiara ha le idee chiare, e non è un gioco di parole. Ha immediatamente chiesto le dimissioni di Francesco Profumo da presidente della Compagnia di San Paolo, la cassaforte della città. Cosi come quelle di Paolo Peveraro, presidente dell’Iren, una società per azioni operante in particolare nella produzione e distribuzione di energia elettrica. Rompere con vecchie dinamiche, un forte sistema di potere che dura da sempre, il valzer di nomine targate Pd. Peveraro ha sostituito Profumo all’Iren che ha sostituito Chiamparino (sindaco prima di Fassino) alla compagnia San Paolo che è andato a fare il presidente della Regione. Ma potrebbe essere una vera rivoluzione. In partenza sono anche Gianmarco Montanari, city manager (203.615 euro lordi l’anno), il portavoce di Fassino, Gianni Giovannetti (138. 560 euro l’anno), il dirigente ai Grandi progetti urbani Anna Prat (91.330 euro l’anno) un incarico che andrebbe soppresso.
Un poltronificio collaudato, un giro chiuso, le mani sulla città. Ed allora che fa la bocconiana (laurea sulla Juve: calcio e conti da quadrare) Appendino? Per la composizione di parte della sua giunta ha indetto una sorta di bando, una chiamata pubblica per selezionare i “migliori”.
E non bisogna essere pentastellati, basta non essere iscritti a nessun partito politico e non aver partecipato a competizioni elettorali in liste concorrenti al Movimento 5 Stelle negli ultimi quattro anni. Insomma non siamo proprio alla demarchia, ma siamo, più o meno, su quella strada.
Due ragazze normali, niente di speciale, che avranno mille problemi da affrontare e chissà se ce la faranno, due ragazze ricche sino ad ora di buonsenso e senso pratico. I torinesi stanno pagando ancora le Olimpiadi invernali del 2006, i romani devono ancora regolare i debiti per qualche esproprio di terreno delle Olimpiadi 1960 e dei Mondiali di calcio 1990. Roma ha le tasse locali più alte di Italia, Torino ha dovuto tenerle al livello massimo ordinario. Dovevano schierarsi con le Olimpiadi, aggregarsi al partito del debito?
Matte si, ma fino ad un certo punto. Sospinte da una lucida follia e pazze di gioia per l’avventura che stanno per iniziare. Una carica esplosiva palpabile, forse vincente. Ricordano in qualche modo le protagoniste di “La pazza gioia”. Profumo di donna, è la nuova politica. In fondo sembra un film.
complimenti per l’articolo “profumo di donna”.
Non ho letto ancora gli altri ma mi accingo a farlo.
Paola Pozzi