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La vita è bella

di Nico Pirozzi

Quando il fumo di Auschwitz giunse ad offuscare anche il cielo sopra il Vesuvio, Abramo Hasson e Rachele Bivash, e i loro due figli Giacomo e Davide (Dino), avevano già da tempo smesso di vivere.

Salomone Hasson con il genero e il nipote

Salomone Hasson con il genero e il nipote

La loro storia, quella di ebrei apolidi, cacciati dall’Italia perché il sangue che scorreva nelle loro vene era “diverso” per legge, per Abramo e Rachele era cominciata a Napoli nei mesi successivi all’agosto 1917, quando, come migliaia di altri ebrei greci, avevano dovuto lasciare Salonicco, la Gerusalemme dei Balcani, a causa dell’incendio che aveva ridotto in cenere il quartiere ebraico.

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E nella città di Partenope erano venuti al mondo i quattro figli della coppia: Dora (1924), Salomone (1927), Giacomo (1929) e Dino (1930). I venti e più anni della storia napoletana della famiglia Hasson è sostanzialmente racchiusa tra i vicoli dei Decumani, dove Abramo, tra alterne fortune, portava avanti la sua attività di commerciante di tessuti. Poi, improvvisa, la tempesta delle leggi razziali che colse impreparati non solo gli Hasson, ma tutti gli ebrei, indistintamente: 835 persone che a Napoli erano nate o avevano scelto di viverci. Il loro dramma di “ebrei”, prima, e di “ebrei stranieri” poi, cominciò il 14 luglio 1938, in coincidenza con la pubblicazione del Manifesto degli scienziati razzisti sul quotidiano “Il Giornale d’Italia”. Il calendario dice che era un giovedì. Nel giro di venti mesi furono derubati di tutto ciò che, con tenacia e sacrificio, erano riusciti a costruire e mettere da parte.campoconcentramento Con i pochi stracci che erano riusciti a portar via dal Paese che per più di vent’anni era stato la loro casa, lasciarono via Arte della lana (l’ultimo domicilio noto della famiglia) per tornare a Salonicco. Qui, ad anticipare la catastrofe fu la guerra d’aggressione che Mussolini maldestramente scatenò contro la Grecia. Fu allora che Abramo Hasson e Rachele Bivash scoprirono che i due figli più piccoli (i maggiori erano fortunosamente riusciti a imbarcarsi per gli Stati Uniti, qualche mese prima dell’entrata in guerra del nostro Paese) erano ostaggio dell’unica lingua che conoscevano — l’italiano — e di una comunità che, certamente, non amava il popolo che tanti lutti stava portando anche a Salonicco.

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Ad annunciare i giorni dell’apocalisse furono, però, le insegne della svastica e della stella gialla, che gli occupanti nazisti imposero agli abitanti ebrei di quella che era stata la Gerusalemme dei Balcani. In un incalzare di eventi drammatici, si dipana anche l’incredibile storia di un gruppo di uomini (primi tra tutti, il console di Salonicco Guelfo Zamboni e il suo successore Giuseppe Castruccio, e il capitano del Regio esercito, Lucillo Merci), che per profonda percezione del dovere o per intimo senso di umanità decisero di abbracciare la causa delle vittime e non dei carnefici.

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Alla porta di villa Olgas, sede della rappresentanza italiana nel capoluogo macedone, il cui indirizzo erano noto a tutti gli ebrei della città, gli Hasson non bussarono mai. Nemmeno Giacomo e Dino, che le loro ansie e le loro aspettative le affidarono a un foglio di carta velina spedito ai cugini napoletani, Eddina e Alberto Bivash, sei mesi prima di essere deportati nel ghetto di Baron-Hirsh e da lì direttamente nella Polonia del Governatorato Generale (Generalgouvernement für die besetzten polnischen Gebiete).

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Auschwitz

L’epilogo della storia — quello che Abramo e Rachele non avrebbero mai immaginato nemmeno nel peggiore degli incubi — è praticamente simile a quello vissuto da almeno sei milioni di ebrei europei, morti nelle camere a gas di Auschwitz, Treblinka e Majdanek; nei ghetti-macello di Kaunas, Lódz, Minsk e Varsavia; o finiti con un colpo alla nuca per mano dei boia degli Einsatzgruppen, le unità mobili della polizia, della polizia segreta e delle Waffen SS, specializzate negli omicidi di massa di ebrei.

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Sezione per fanciulli ebrei della scuola Vanvitelli

94Sin qui la vicenda umana di una famiglia di ebrei napoletani risucchiati nel vortice della Shoah, la cui presenza nel mondo dei vivi è oggi testimoniata dall’esistenza di una fotografia che ritrae un bambino (Dino), che con sguardo vispo e capelli arruffati sorride curioso all’occhio della macchina fotografica che inquadra i piccoli alunni della sezione speciale per fanciulli di razza ebraica, in funzione presso la scuola elementare “Vanvitelli”, in via Luca Giordano, a Napoli.

Più in là la memoria persa di una città disillusa e distratta, che da quasi mezzo secolo continua ad avere una delle sue strade dedicate al presidente del Tribunale della razza, Gaetano Azzariti. Certamente incurante del rischio che — come ricordava il filosofo spagnolo George Santayana — chi non ricorda il proprio passato è destinato a ripeterlo.

 

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