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Il comunista giacobino e visionario

di Corrado Ocone

Come definire Gerardo Marotta, il fondatore e Presidente dell’Istituto Italiano per gli Studi filosofici, morto ieri a Napoli all’età di novanta anni. Oggi si direbbe, con termine di discutibile gusto ma che dà l’idea, che Marotta era un “visionario”.

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Gerardo Marotta

E tale egli fu soprattutto quando, a metà degli anni Settanta del secolo scorso, cominciò a riunire nel suo studio di Viale Calascione un gruppo di uomini di lettere con lo scopo di fare, proprio in quel momento, per la filosofia quello che Croce aveva fatto, subito dopo la guerra, per gli studi storici con la creazione dell’Istituto di Palazzo Filomarino. Era in qualche modo un’idea imprenditoriale, la sua: per realizzarla ci voleva un discreto budget, sempre che si volesse fare qualcosa di serio, di internazionalmente accreditato, corrispondente al carattere giustamente dell’uomo.

Corrado Ocone

Corrado Ocone

Quei soldi arrivarono in parte dalle sue fortune private, di famiglia o accumulate nella sua precedente attività di avvocato fallimentare, ma soprattutto per le mille vie, che egli sapeva abilmente percorrere, della politica e dei finanziamenti statali.

A Napoli risorse private, mettiamo di imprenditori/mecenati, non ce ne erano. E Marotta, in verità, nemmeno le cercava, e anzi dava l’impressione di schifarle. La sua visione del mondo era statalistica in sommo grado: era lo Stato che, indirizzato dagli uomini colti di cui lui si considerava un mero coordinatore, doveva farsi carico dell’educazione pubblica del popolo.

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Un popolo che, sotto sotto, egli giudicava, come la vecchia borghesia napoletana, ancora e sempre “lazzarone”. Lo Stato pedagogico ed etico doveva in primo luogo, secondo lui, assumersi il compito di formare e elevare la cultura delle classi dirigenti meridionali. Era una vecchia tradizione di pensiero quella che Marotta faceva propria: risaliva all’hegelismo risorgimentale, all’amato Silvio Spaventa per esempio.

Essa però, ad avviso di chi scrive, se aveva forse un senso in epoca post-risorgimentale, quando si trattava di mettere mano a un grandioso processo di Nation Building, non ne aveva, al tempo in cui nasceva l’Istituto come oggi, più alcuno. D’altronde, Marotta, che da giovane aveva avuto forti simpatie comuniste, aveva sempre conservato una impronta giacobina al suo modo di fare.

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Marotta ed i suoi libri dopo lo “sfratto”

E in essa si inseriva l’esaltazione dei “patrioti” napoletani del ’99, fra cui il giovane Serra di Cassano, nel cui bellissimo Palazzo l’Istituto si era nel frattempo allocato. Patrioti messi a morte dalla reazione borbonica e sanfedista. Il rischio incipiente di questa impostazione statalistica, cioè quello di una “gestione privata di risorse pubbliche”, Marotta, col suo Istituto, lo corse fino in fondo, per quanto “illuminata” possa essere stata, in un primo tempo, la sua gestione (tutti i più grandi filosofi del nostro tempo, da Popper a Derrida, soprattutto a Gadamer, che era un habitué, sono passati per le stanze di via Monte di Dio).

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Le risorse pubbliche, per una serie di ragioni (non solo politiche ma anche finanziarie), nel nuovo millennio vennero meno. E lo stesso Marotta, con il sopravanzare dell”età, perse alla fine lo smalto iniziale. L’Istituto andò sempre più esaurendo la sua spinta propulsiva, fino ad entrare in crisi. Marotta non lascia eredi e difficilmente l’Istituto, se non si ripensa radicalmente, potrà avere un futuro. È certo un peccato per la cultura e per Napoli, ma forse è anche un portato della diffidenza congenita delle élites napoletane e meridionali per tutto ciò che non sia Stato.

 

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