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L’astuzia della ragione

di Corrado Ocone

Capisco lo stato d’animo di Giuliano Ferrara perché, nel mio piccolo, è anche il mio. Donald Trump non mi piace, quasi a pelle, cioè prima di tutto per un motivo estetico e direi quasi antropologico: le persone con il ghigno e accigliate, o che si prendono troppo sul serio, le persone di pancia (un altro è Grillo), non sono il mio tipo. Preferisco altri tipi umani: quelli sobri e borghesi, ad esempio, ma anche certe personalità burbere ma schiette, più ancora di tutte quelle raffinate e sottilmente ironiche che un tempo erano il fiore all’occhiello di una colta borghesia napoletana che più non è dato vedere. Ne uccide più una raffinata ironia che mille Vaffa!

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Ma, seppur conscio con Machiavelli che in politica l’apparenza conta (e forse oggi più di ieri per i fin troppo banali motivi), sono pur sempre legato all’altro e imprescindibile caposaldo fiorentino del tener dietro alla realtà delle cose o “effettuale”.

Un politico lo giudico perciò dalle idee e dal programma che mi propone, e ancor più da quello che fa una volta al potere. E mi tengo lontano dal frequentarlo se lo trovo rozzo e volgare come indubbiamente è il nostro (sempre che non prevalga in me il perverso ma pure umano fascino del kitsch e dell’estremo o l’altrettanto umana curiositas).

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Corrado Ocone

Tengo comunque sempre ben distinto, perché questo prima di tutto mi hanno insegnato il Segretario e i suoi epigoni, il giudizio morale (anche nel senso lato del mos o costume) da quello politico. Da questo punto di vista, i punti che a me non piacciono del programma di Trump, che c’è ed è stato scritto e tante volte profferito (credo che si sia alquanto esagerato parlare di una sua imprevedibilità, almeno non più di tanto), sono quelli che strizzano l’occhio all’isolazionismo e al protezionismo. Il ruolo dell’America nel mondo, come “gendarme” a difesa delle nostre libertà, è per me ancora imprescindibile, così come lo è la pacifica e pacificante libertà dei commerci e dei mercati. Su questi punti, aspetterò al varco il neopresidente, sperando che essi non vengano attuati fino in fondo o nemmeno un po’. Casomai per la benefica influenza di quel Partito repubblicano alla cui forza e alle cui idee egli, stando almeno a quello che lasciano intuire le prime scelte e i nomi dei collaboratori, saggiamente non vorrà rinunciare.

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Ma sugli altri punti, e qui ritorniamo a Ferrara, non mi sembra che Trump stia facendo altrimenti da quel che avevo promesso. E che (vi sembra poco?) è quanto rompe finalmente il monopolio pubblico sul discorso politico, cioè l’egemonia culturale, del pensiero liberal e di quella mezza cultura (Perché non attenta alle sfumature e alla dialettica che è propria della realtà) che generalmente chiamiamo “correttezza politica” e che ahimè, come Il Foglio ogni giorno ci ricorda, domina incontrastata nei campus e fra le classi dirigenti americane (e non solo). Avremmo voluto certo che raffinata fosse, nel porsi, anche la controproposta, ma il nostro non è altro che il vano conato di un pur sano, se tenuto nei suoi giusti limiti, snobismo estetico e intellettuale: l’altezzosità chi ama il suo stile di vita e il suo rassicurante comfort borghese, ma non per questo può pretendere di imporlo agli altri. Uno snobismo che non si confà alla politica, e soprattutto a quella che ha corso in democrazia e che poi, in fin dei conti, “nobili” e “plebei”, tutti ci garantisce.

Giuliano Ferrara

Giuliano Ferrara

Perché allora, caro Ferrara, parlare di “eterogenesi dei fini“, come, e qui volevo arrivare, tu fai, fin dal titolo, nell’articolo che pubblichi sul Foglio del lunedì di questa settimana? Perché quasi (cominciare a) compiacersi di un Trump di cui abbiamo diffidato e non avere il coraggio di dirlo, di fare una almeno parziale e condizionata autocritica?

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Antonin Scalia

Il Trump che, come tu ricordi, finalmente dice qualche verità finora taciuta (antisemitismo inconscio?) sullo Stato ebraico, sconfessa la dissennata politica del predecessore sull’Iran, cerca di impostarne una più realistica con Putin (lasciato fra l’altro da Obama a dominare il mondo), e ancora si propone di controbilanciare in nome del “grande” (come non essere d’accordo?)  Antonin Scalia lo strapotere democratico in seno alla suprema corte.

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Donald Trump

 

Ripeto: ove è l’eterogenesi nei fini se queste cose erano già tutte scritte nel programma di Trump, erano nei suoi discorsi ufficiali? Non c’è affatto, in questo caso, discrasia fra i fini che il tycoon predicava e quelli che ora si appresta (si spera o sembrerebbe) a realizzare. Non c’è una “conseguenza inintenzionale” di “azioni intenzionali”, che è l’altro modo, meno provvidenzialistico e più laico, e anzi scientifico, di definire la cosa stessa. Almeno che tu, Ferrara, con quella espressione non voglia intendere che la storia per realizzare i suoi obiettivi si serve del materiale che trova, spesso grezzo, come in questo caso. Ma qui scadremmo, se così fosse, in un altro provvidenzialismo, quello hegeliano dell’ “astuzia della Ragione“. E dal giudizio politico ci ritroveremmo catapultati addirittura nella “filosofia della storia”, nella “storia universale” e nello Spirito assoluto.

Wilhelm  Wundt

Wilhelm Wundt

Se poi tu vuoi dire che Trump che sembrava una traversia era invece un’opportunità, non ti pare che nel giudicarlo una traversia tu abbia fatto prevalere un pregiudizio intellettualistico e moralistico che non è pertinente all’ambito politico, come la storia oltre che la dottrina ci ha già ampiamente e in vario modo dimostrato negli ultimi due secoli e mezzo? Non sarebbe forse ora più giusto dire, ammesso e non concesso che Trump non ci deluda strada facendo, che ci eravamo sbagliati? Vediamo perciò, anche con un po’ di apprensione, come finisce questo storia, ma per intanto lasciamo stare, con buona pace dello psicologo Wundt (che nell’Ottocento coniò l’espressione), l’eterogenesi dei fini. La quale in questo caso, come diceva quel tale, c’azzecca non più di un cavolo a merenda!

 

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