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Sirenapoli

di Paolo Isotta

Le Sirene sono più antiche di Omero. Derivano da miti sumeri e babilonesi, come mostra un bassorilievo del British Museum risalente all’inizio del secondo millennio a. Ch. In Grecia sono mostri appartenenti alla lugubre schiera di Ecate, come le Arpie, le Erinni e lo stesso Thanatos. Alate, il tronco è femminile ma, prima ch’esso giunga al pube, zampe d’uccello terminanti con rostri prendono il loro luogo. Esseri ctonii, sono i morti insepolti che attirano gli uomini per farli morire e berne il sangue, del quale hanno bisogno.

Paolo Isotta

Paolo Isotta

Nel Dodicesimo dell’Odissea sono due; su di un’isola tirrenica (al largo del golfo di Napoli?) vorrebbero la morte di Ulisse, e gli cantano il loro canto “limpido” e “dolce”. Il Re si salva per esser stato messo sull’avviso da Circe, nell’ultimo colloquio. Non tutti ricordano che uno dei più grandi poeti italiani e latini, Pascoli, continua l’episodio e inventa una morte di Odisseo differente da quella di Dante. Ne L’ultimo viaggio, dei Poemi conviviali, il vecchio Ulisse torna presso l’isola: e questa volta il canto gli apporta solo morte. Il viaggio si conclude con altro ritorno, all’isola di Calypso: ove ne giunge il cadavere.

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Poi le Sirene divengono tre. E incominciano a trasformarsi in donne-pesce, pur senza del tutto soppiantare l’uccello. Raffigurazioni tardoantiche e medioevali le vogliono dotate non più di ali ma di braccia reggenti una doppia coda squamata. Già la cultura stoica, poi quella cristiana, ne fanno un emblema: il canto è la falsa lusinga che distoglie dalla ricerca del Bene e di Dio.

Che nel Medio Evo loro immagini siano inserite in contesto sacro ma non in questo significato allegorico dimostra la sopravvivenza di un esoterismo pagano. Ma un mito più recente si aggiunge e sovrappone. La principale delle tre, Partenope, era donna, non più mostro, di stirpe regia morta alla foce del Sebeto. Sulla sua tomba sarebbe stata eretta la prima Napoli, Palepoli, dai greci cumani, all’inizio dell’ottavo secolo. E Partenope (“la dolce”) è il nome mitico della città: lo ricordano i versi conclusivi delle Georgiche di Virgilio, che vennero composte nella villa sulla collina di Posillipo.

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La Sirena Partenope diviene il principal simbolo della città ispirando la poesia, l’arte figurativa: e la musica. La storia del mito, dalle origini ctonie fino al 1817, è fatta in un bel libro di Dinko Fabris, Partenope da Sirena a Regina (pagg. 302, euro 24), pubblicato dall’editore Cafagna di Barletta. Quest’editore si sente meritoriamente ancora suddito del regno, come si sente anche l’Autore, nato a Bari da origini irredente.

Fabris è un musicologo di successo: a me del libro affascinano ancor più che le dotte pagine di argomento musicale quelle di natura mitologica dedicate all’antichità e al Medio Evo: esse mostrano del mio collega una cultura classica e una dimestichezza con i reperti museali di tutto il mondo che non gli conoscevo e contribuiscono a fare dell’opera la fonte più recente sul vasto tema delle Sirene.

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Nel febbraio 1816 il teatro di Partenope, il San Carlo, venne distrutto da un incendio. Provvidenziale, giacché la sala ricostruita dall’architetto Antonio Niccolini è diventata il più bel teatro del mondo. Solo undici mesi dopo si reinaugurò. Per una di quelle scelte che rendono la burocrazia più forte del destino, non con un’opera di Rossini, che allora viveva a Napoli ed era il genio maggior musicista italiano, ma di Simone Mayr, un buon maestro bavarese italianizzato: Il sogno di Partenope. Per fortuna al sommo della facciata del teatro il Niccolini ha scolpito un gruppo: Partenope che incorona la Tragedia e la Commedia. Esiste ancora, nonostante tutto.

 (Fatto Quotidiano)

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