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Milano verde, Napoli al verde

 di Eduardo Palumbo

A Milano a Porta Nuova, sono in corso di ultimazione due grattacieli residenziali (110 e 78 metri di altezza) il suggestivo e “ingannevole” Bosco verticale. Bello, brutto ognuno dice la sua. Ma qualcosa comunque si muove, una idea di città. Napoli, invece, è ferma nel tempo, una statua di pietra, di gran lunga la più immobile delle grandi città italiane. Che inutile sottolinearlo, vuol dire, la più statica metropoli d’Europa. Un segno di impotenza.

Là dove c’era l’erba ora c’e una città e quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà… ” Ricordate il grido d’allarme si Adriano Celentano per via Gluck, la grande invasione del cemento, le città che perdevano il verde, gli spazi di aggregazione, gli alberi? Roba di mezzo secolo fa, ma quello che allora era un grido d’allarme è oggi una disperata denuncia. Si corre ai ripari, almeno si tenta.

Solo un paio di mesi fa, ad esempio, il Comune di Milano ha deliberato la richiesta di vincolo paesaggistico per quattro aree della città, tra cui proprio via Gluck quel tratto di strada divenuto leggenda, sogno perduto per una intera generazione, nella zona nord della città, quella delle case con li ringhiere. Sempre a Milano, in zona Porta Nuova, sono ora in corso di ultimazione due grattacieli residenziali (110 e 78 metri di altezza) il suggestivo ma “ingannevole” Bosco verticale, palese contraddizione in termini, visto che conosciamo solo boschi in pianura, in collina, in montagna (anche su pendii molto ripidi, dove le radici degli alberi trattengono provvidenzialmente il terreno, prevenendo frane e dissesti ) ma di boschi verticali proprio no. Le piante hanno bisogno di terra al di sotto per potersi sviluppare. La peculiarità di queste costruzioni sarà la presenza rispettivamente di oltre 900 specie arboree (550 alberi nella prima torre e 350 nella seconda, circa) sugli 8 900 metri cubi di di terrazze  La struttura è stata completata nel primo quadrimestre del 2012 si sta attualmente procedendo con la realizzazione delle facciate e degli impianti. Il progetto singolare e in qualche modo avveniristico è firmato da Stefano Boeri architetto urbanista e politico di spicco della sinistra milanese (candidato alle primarie di coalizione per il sindaco di Milano del Pd, sconfitto poi da Pisapia) sino a poco tempo fa assessore a Palazzo Marino alla cultura, moda, design e Expo prima di sbattere la porta ed andare via essendo palesemente in disaccordo con le linee imposte dall’amministrazione. Boeri, probabilmente consapevole del risultato architettonico finale di due parallelepipedi con balconi e terrazzi sporgenti in modo asimmetrico, ha provveduto fin dal progetto iniziale a ricoprire gli edifici di alberi, arbusti, cespugli di piante floreali di molte varietà, cercando di caratterizzare in modo insolito la non certo esaltante struttura architettonica.

Non che il Bosco verticale non abbia suscitato critiche ed osservazioni. Secondo molti con il poco spessore di terreno disponibile su balconi e terrazzi probabilmente ci si dovrà accontentare di un “Sottobosco verticale”, o al massimo di un bosco bonsai, con alberi costretti a non svilupparsi per mancanza dello spazio sufficiente. Soltanto tra qualche anno si potrà stilare il primo bilancio di questa forestazione metropolitana.  Del resto soleva dire il più importante architetto americano della prima metà del XX secolo Frank Lloyd Wright, “un medico può sempre seppellire i propri errori, un architetto può solo consigliare il cliente di piantare dei rampicanti”.

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la casa cascata

Wright aveva, evidentemente, già intuito quale rimedio sarebbe stato necessario per mascherare molti degli errori del cosiddetto Modernismo.Frank Lloyd Wright è passato alla storia per la celebre Fallingwater (casa sulla cascata) che venne costruita tra il 1936 e il 1939 in prossimità di un salto d’acqua sul torrente Bear Run nei boschi della Pennsylvania, per Edgar J. Kaufmann, proprietario dell’omonima catena di grandi magazzini. Fallingwater nel tempo è divenuta sinonimo di equilibrio tra architettura e natura,l continuità tra interno ed esterno accentuata dall’impiego degli stessi materiali, pavimenti sono rivestiti in pietra, così come i muri, il camino del grande soggiorno-pranzo  incassato nella roccia, le opere di falegnameria in noce marezzato.

Scrisse Bruno Zevi “la scatola è completamente distrutta. Non esistono più pareti, ne schemi geometrici, ne simmetrie, ne consonanze, ne punti prospettici privilegiati, ne leggi che non siano quelle della libertà e del mutamento’” Le città cambiano più o meno rapidamente nel corso del tempo anche se non sempre le trasformazioni producono un’evoluzione positiva della struttura urbana, recando una crescita economica, civile e culturale del contesto sociale, registrabile, come invece dovrebbe essere, in un miglioramento della qualità della vita quotidiana.

Ma cambiano, devono cambiare come ha scritto Benedetto Gravagnuolo in un utilissimo saggio: “Metamorfosi delle città europee”, un libro che documenta le trasformazioni avvenute in 23 città europee nei primi dieci anni del terzo millennio. E si rileva che se le città italiane sono le più lente a cambiare nel vecchio Continente, tra tutte, la più lenta è Napoli.

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Il museo Maxxi di Roma

Roma ha il museo Maxxi di Zaha Hadid e l’Auditorium di Renzo Piano alle pendici della collina di Villa Gloria; Torino ha utilizzato le risorse dei Winter Olympic Games del 2006 per passare dall’immagine della città-fabbrica a quella di capitale dell’arte e della creatività; Venezia ha costruito un quarto ponte sul Canal Grande, quello di Santiago Calatrava. Milano grazie anche all’Expo, naturalmente è la città che, dal Nuovo centro direzionale della Fiera al nuovo quartiere della Bicocca, più è cambiata e più si è trasformata negli ultimi anni. Resta Napoli ferma nel tempo, una statua di pietra, di gran lunga  la più immobile delle grandi città italiane. Un po’ di maquillage qua e là, qualche piazza ristrutturata e alcune stazioni della metropolitana costate un patrimonio e che sembrano non finire mai.

Progetti e parole, l’orologio della pianificazione urbana si colpevolmente fermato, perso ad ovest fra i convegni su Bagnoli e ad est in una tavola rotonda di quell’  ampia area di periferia che abbraccia i quartieri di Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio. Sogni e progetti sfumati nel tempi.

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Nella seconda metà degli anni Ottanta, Enzo Giustino, ex presidente del Banco di Napoli, ma negli anni Settanta e Ottanta numero due nazionale di Confindustria, si inventò il “Regno del possibile”. Un progetto urbanistico sotto certi aspetti avveniristico, un piano che anticipava di decenni la finanza di progetto e che prefigurava un nuovo rapporto tra pubblico e privato e che si poneva in anticipo il problema del riequilibrio urbano tra centro e periferia. Napoli, come spesso avviene,  prima aprì le braccia a quel progetto e poi lo affossò. Non se ne fece nulla. Ritornò prepotente lo spettro, l’incubo de “Le mani sulla città”. “Napoli cambierà, è normale. L’unica cosa che non cambia mai è che si parla sempre di come dovrà cambiare questa città”. diceva Massimo Troisi. Già,  come è stato più volte sottolineato, caratteristica peculiare di Napoli è quella di ricominciare sempre tutto daccapo. La città gambero. In specie per quel che concerne l’amministrazione del territorio. Emerge un problema, si apre una discussione, ci si accapiglia, ci si confronta, ci si scontra. Poi subentra il silenzio. Dopo qualche anno, la questione, imposta logicamente dall’emergenze, si ripropone.

E allora si ricomincia di nuovo tutto daccapo. E ci ritroviamo dal bosco verticale di Milano all’Albero Bianco che sorgerà a Montpellier, in Francia. L’Albero Bianco è un edificio di 17 piani dalla forma strana, con un tronco principale e balconi che si gettano all’esterno e sembrano rami. Sono luoghi perfetti per fare crescere le piante. Se i proprietari li sfrutteranno propriamente, il colpo d’occhio sarà quello di un giardino verticale. E Napoli? Ferma alla sindrome delle mani sulla città.

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L’Albero Bianco di Montpellier

 

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