La bustarella
 L’Italia è un Paese di corrotti e corruttori. Ma in galera non va nessuno…
 
di Giandomenico Lepore e Nico Pirozzi

La bustarella

di Giandomenico Lepore e Nico Pirozzi

 Giandomenico Lepore e Nico Pirozzi, un magistrato ed un giornalista, hanno monitorato lo stato della Giustizia in Italia. “Chiamatela pure giustizia (se vi pare)” Edizioni Cento Autori, affronta le questioni più spinose e controverse della giustizia, non risparmiando critiche e bordate polemiche a una classe politica spesso inefficiente e autoreferenziale. Un racconto senza omissioni o censure, che illumina di una luce nuova uno spaccato della storia del nostro Paese, delle leggi sbagliate e delle riforme mancate 

185131278-900d0d49-10d2-4d90-8022-cf392a406569

Che l’Italia non fosse solo un paese di santi, poeti e navigatori, ma anche di corrotti e corruttori era – ahimè! – noto da tempo. Le 1.435 denunce per concussione, corruzione, peculato e abuso d’ufficio notificate dalla Guardia di finanza, nei primi cinque mesi del 2014; le statistiche pubblicate da “Transparency International” sul livello di percezione del fenomeno (il Corruption Perception Index), che collocano il nostro Paese in una posizione assai peggiore di quella del Botswana, del Ghana, del Ruanda e del piccolo regno del Bhutan, potremmo definirle una poco lusinghiera conferma.

Quello di cui solo in pochi avevano idea era la rapidità con cui un’illegalità formale evolvesse in una legalità sostanziale. Al punto da essere digerita e culturalmente assimilata dalla maggioranza dei cittadini. Anche da quelli che da certe vergognose e consolidate consuetudini hanno solo da perdere.

Italo Calvino

Italo Calvino

Di quell’Italia corrotta e maneggiona ne aveva parlato con pungente ironia Italo Calvino, nella metafora del paese dei disonesti. “C’era un paese – scrive Calvino – che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia”.

 Giuseppe Prezzolini

Giuseppe Prezzolini

Un sistema di riprovevoli abitudini che, sessant’anni prima, Giuseppe Prezzolini aveva efficacemente descritto in uno dei suoi più celebri aforismi, raccolti nel “Codice della vita italiana”. “La mancia – scrive Prezzolini – è la più grande istituzione tacita d’Italia, dove gli usi contano più delle leggi, e le consuetudini più dei regolamenti. Per far procedere una pratica come per ottenere un vagone, per avere notizia di una sentenza, come per far scaricare un piroscafo, occorre sempre la mancia. Il modo di darla è variabile ed esige un noviziato non breve, una conoscenza della graduatoria sociale e dei sistemi in uso. Essa va dal volgare gruzzoletto posto nella mano dell’autorità da commuovere, e dalla bottiglia fatta stappare in onore dell’affare che si conclude, fino alla “bustarella”, in uso negli uffici di Roma ed ai contratti tariffati degli agenti ferroviari del settentrione, od al vezzo di perle per la signora e la compartecipazione ad un’emissione di azioni per il grosso affarista o giornalista”.

 Alberto Vannucci è direttore del Master APC Analisi Prevenzione e Contrasto della Criminalità

Alberto Vannucci, direttore del Master Apc

Se, mance, bustarelle, creste e prebende varie, fanno parte di quell’abito culturale che l’Italia non ha mai dismesso, nemmeno dopo la stagione di “Mani pulite” e dei grandi processi ai faccendieri della prima Repubblica, perché stupirsi per le mazzette pagate per aggiudicarsi gli appalti del Mose di Venezia o, prim’ancora, per il G8 a La Maddalena? Tenuto anche conto – è questa la vera notizia – che la corruzione non è più considerata un reato. Perlomeno in Italia. No, non è una provocazione. È invece quello che ha scoperto Alberto Vannucci, direttore del Master in Analisi e prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione all’università di Pisa. “In Italia – spiega Vannucci, intervistato da una cronista del “Fatto Quotidiano” – i colletti bianchi sono solo lo 0,4 per cento dei detenuti, a fronte di una media europea dieci volte superiore, anche se da noi le tangenti sono molto più comuni che nel resto della Ue. Ma se ci concentriamo solo sulle mazzette, i dati sono ancora più incredibili: in tutto il Paese, i condannati che si trovano in carcere per corruzione sono meno di dieci”. Dieci corrotti su una popolazione di oltre sessanta milioni di abitanti. Già, di cosa stupirsi?

corruzione1

 La corruzione in Europa è un fenomeno che riguarda tutti gli Stati, ma per l’Italia è qualcosa di più: è un virus, più letale della febbre gialla e più antico di quello recentemente riesumato in Siberia. A confermarlo sono – ultime in ordine di tempo – le inchieste avviate dalle procure di Milano e di Venezia, sugli appalti legati all’Expo e sulle tangenti pagate per la realizzazione del Mose…

Per carità! Nell’analizzare certi comportamenti devianti non scomodiamo la medicina. Più calzante del paragone con il virus è quello dell’abito culturale, indossato, in questo caso, in un contesto di deriva morale, da un lato, e di quasi impunità, dall’altro. Ha ragioni da vendere il Procuratore generale della Corte dei Conti Salvatore Nottola, quando afferma che la corruzione può attecchire dovunque: nessun organismo e nessuna istituzione possono ritenersene indenni e “nessuna istituzione che abbia competenze pubbliche può ritenersi scevra da responsabilità di fronte al suo dilagare”. Stringe davvero il cuore apprendere che lo stesso ex presidente dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, e l’ex numero uno della magistratura contabile sono finiti nei guai per questo mai debellato malcostume nazionale.

o-SALAVATORE-NOTTOLA 222222

Salvatore Nottola, Procuratore generale della Corte dei Conti

 

Sarà anche scontato affermarlo, ma ben poca cosa ha prodotto la cosiddetta legge Severino di contrasto alla corruzione nella pubblica amministrazione del 2012, che – perlomeno nelle intenzioni del legislatore – doveva rappresentare un importante momento di discontinuità con il passato, ma che i troppi compromessi politici l’hanno svuotata di efficacia e significato. Ciò di cui probabilmente non si è tenuto sufficientemente conto riguarda gli aspetti intrinseci ad un fenomeno che sottrae diverse decine di miliardi di euro all’economia sana del Paese ed ha comportato una vertiginosa impennata dei costi delle opere pubbliche divenuti i più alti del continente. Un fenomeno che ha piantato radici profonde in tutte quelle situazioni in cui il potere di controllo da parte dello Stato si fa opaco e invisibile, generando una sorta di cono d’ombra, che il cittadino percepisce come corpo separato e impenetrabile della società civile, garantito da una legislazione lacunosa a sua volta fortemente condizionata da tempi di prescrizione che definire brevi potrebbe apparire un eufemismo. Tra le maglie larghe di questo sistema – su cui da metà giugno 2014 vigila anche l’Authority guidata da Raffaele Cantone – sono stati partoriti il mega affaire legato agli appalti dell’Expo milanese e anche quello del “Mose” di Venezia.

Raffaele Cantone

Raffaele Cantone

Corrotti e corruttori hanno bypassato con troppa facilità quel sistema di regole e di comportamenti che qualsiasi organizzazione degna di questo nome si sarebbe data. Mi riferisco alle norme che disciplinano la tracciabilità e la rendicontazione delle attività svolte (sono ben 64.601, per un valore di circa 84 miliardi di euro, le segnalazioni di operazioni sospette fatte dalla Banca d’Italia nel corso del 2013), l’autoriciclaggio e il falso in bilancio – su cui il governo è recentemente intervenuto con significative modifiche di legge – il conflitto d’interesse, e, non da ultimo, l’eccessivo ricorso alle procedure negoziate (soprattutto quelle senza pubblicazione del bando) che in Italia sono più del doppio rispetto alla media Ue.  Stando così le cose c’è assai poco da stupirsi se la Commissione Europea nel febbraio 2014 ci ha assegnato il palmares di Paese più corrotto dell’Unione, sulla scorta dei dati forniti dall’Agenzia antifrode europea (Olaf). Difatti, dei 120 miliardi di euro sottratti ogni anno all’economia Ue, la metà sono targati Italia. Anche per gli analisti dell’Agenzia assai preoccupanti sono “i legami tra politici, criminalità organizzata e imprese”, nonché lo “scarso livello di integrità dei titolari di cariche elettive e di governo”. Insomma, sarebbe “la corruzione diffusa nella sfera sociale, economica e politica ad attrarre i gruppi criminali organizzati e non già la criminalità organizzata a causare la corruzione”.

corruzione-italia

A fronte di questa drammatica situazione – si domandano a ragion veduta a Bruxelles – cosa hanno fatto i governi italiani che si sono succeduti in questi anni contro la corruzione? Poco o niente, è anche la loro risposta. Anzi, alcuni atti hanno finito con il peggiorare una situazione già di per sé allarmante, causa anche i ristretti tempi di prescrizione di certi reati. «In diverse occasioni – stigmatizzano gli analisti dell’Unione – il parlamento ha approvato o ha tentato di far passare leggi ad personam a favore di politici imputati in procedimenti penali, anche per reati di corruzione. Ne è un esempio il progetto di legge sulla “prescrizione breve” che comportava l’elevato rischio di vedere estinguere i procedimenti a carico di indagati incensurati. Un altro esempio è il “lodo Alfano” che imponeva, per le quattro più alte cariche dello Stato, la sospensione dei processi relativi a fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione e dei processi penali in corso. La legge è stata poi dichiarata incostituzionale. Un ulteriore esempio è la legge del 2010 sul “legittimo impedimento” a comparire in udienza per il presidente del Consiglio dei ministri e i ministri della Repubblica italiana, anch’essa dichiarata incostituzionale. Altri esempi consistono nella depenalizzazione nel 2002 di determinati reati, come alcune forme di falso in bilancio”.

bavaglioAveva quindi ragione l’avvocato Carlo Taormina, difensore dell’ex consigliere regionale Franco Fiorito, quando affermava che il suo assistito non era il peggiore dei colleghi – e anche di molti manager pubblici, aggiungiamo noi – i quali lo hanno superato solo in ipocrisia.

Nell’ultimo quarto di secolo la politica ha offerto la peggiore immagine di sé, al punto che anche il Papa si è sentito in dovere di intervenire sulla questione, sostenendo la difficoltà di rimanere onesti in politica, “non perché sia la natura della politica, ma perché in un cambio d’epoca le spinte verso una certa deriva morale si fanno più forti”. Da parte mia non vorrei essere costretto a ricordare che se la Costituzione, all’articolo 68, ha previsto l’immunità per il parlamentare è solo ed esclusivamente per garantirgli l’assoluta serenità civile, al riparo da eventuali strumentalizzazioni delle funzioni giudiziarie a fini di pressione, repressione o intimidazione.

Carlo Taormina  e Franco Fiorito

Carlo Taormina e Franco Fiorito

 

Quell’originaria garanzia si è via via trasformata in uno scudo alle degenerazioni del sistema. E visto che ci siamo aggiungo anche che una volta si rubava per il partito, mentre oggi si ruba al partito, con l’unico scopo di un arricchimento personale. Veri e propri furti commessi ai danni della comunità “in modo preordinato, scientifico e reiterato”, spiegava il gip del tribunale di Roma, Stefano Aprile, nel rigettare la richiesta di scarcerazione di Fiorito. E quando non si tratta di tangenti o di vere e proprie ruberie, a mascherare certe forme di malcostume ci sono le consulenze e le intermediazioni di comodo concesse da politici e amministratori compiacenti agli amici e agli amici degli amici.

Belsito_LegaNord

Francesco Belsito

Ebbene, sono proprio questi comportamenti ad aver contribuito alla disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni e di chi le rappresenta. Ma responsabile di ciò non è solo un partito o un politico. È un sistema generalizzato. Basterebbe ricordare la stagione dei bunga bunga e il cattivo esempio offerto da alcune alte cariche dello Stato, che hanno finito col trasformare dei principi morali in immorali. Ma anche le parolacce e le scazzottate che hanno trasformato il parlamento in un teatrino da avanspettacolo.

Luigi Lusi

Luigi Lusi

Senza dimenticare la grottesca vicenda di cui fu protagonista l’ex amministratore della Lega, Francesco Belsito, che avvalendosi della complicità del tesoriere di Totò Riina e Bernardo Provenzano, tentò di investire quattro milioni e mezzo di euro di rimborsi elettorali, in Tanzania. O, peggio ancora, quella dell’ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, condannato a otto anni di reclusione per essersi indebitamente appropriato di ben 23 milioni di euro di rimborsi elettorali.

A guardare questi spettacoli mi chiedo cosa avrebbe pensato e detto Enrico De Nicola, il Presidente gentiluomo, “che rifiutò lo stipendio di Capo dello Stato (12 milioni di lire: una cifra importantissima nel 1946) e quando si trattava di saldare il conto preferiva quasi sempre farlo di tasca propria. Pagava lui le sue telefonate private e i francobolli della corrispondenza personale, anche se partivano dal Quirinale”. Questo per dire che con persone tutte d’un pezzo, come De Nicola e tanti altri, personaggi come Fiorito, Lusi e Belsito, nei palazzi della politica non avrebbero mai potuto mettere piede. Detto questo aggiungo anche che la corruzione non è un abito riposto solo nel guardaroba della politica. Tutt’altro.

Enrico De Nicola

Enrico De Nicola

Corruzione e illegalità sono presenti ovunque, anche là dove meno te l’aspetti, come la Chiesa. Infatti, basta scoperchiare una pentola che subito comincia ad emergere una tale quantità di fango, che gli schizzi non risparmiano niente e nessuno. Lo si è visto con inchieste e processi importanti, come quello al mondo del pallone. Da allora posso dire che non vado più allo stadio, essendo venuto a conoscenza di una tale quantità di imbrogli da poter dire che proprio lì, nel tempio del pallone, lo sport non esiste. E quando esiste è una componente marginale di un più grande e complesso affare, dove a dettare legge sono sempre i soldi. Spesso quelli delle grandi organizzazioni criminali che sul business internazionale delle scommesse hanno investito molto. A esserne penalizzato non è solo lo spettacolo, ma lo spirito stesso dello sport. Sembra quasi che le “combine” più che un’eccezione rappresentino una regola. Una cattiva regola che impera sia nei grandi che nei piccoli club. Ricordo, ad esempio, che nell’autunno 2011 i pm napoletani che indagavano sul calcioscommesse iscrissero nel registro degli indagati anche Hector Cuper, l’ex allenatore dell’Inter. A insospettire l’allora Procuratore aggiunto Rosario Cantelmo e i pm Pierpaolo Filippelli e Claudio Siragusa, fu un vorticoso giro di denari puntati su squadre iscritte nel campionato di calcio spagnolo e argentino. Scommesse su cui minacciosa si stagliava l’ombra dei clan della camorra, che avrebbero potuto condizionare anche l’esito degli incontri. Ma gli esempi anche a casa nostra non mancano, senza dover scomodare la Spagna o l’Argentina per trovarli.

cop_giustizia

Escluse rare eccezioni, i processi ai protagonisti di grossi scandali, come gli sprechi e i ritardi nella ricostruzione post terremoto in Campania o, in tempi più vicini, quello sull’emergenza rifiuti, non hanno prodotto grandi risultati…

Sfido io. Sono processi che si tengono a distanza di diversi anni, quando l’interesse della collettività non è più ravvisabile, o nel migliore dei casi è assai limitato. Questo, senza parlare della complessità di dibattimenti con molti imputati. L’inchiesta sull’emergenza rifiuti in Campania – giusto per fare un esempio – era racchiusa in circa duecento fascicoli, vale a dire migliaia e migliaia di pagine di testimonianze, intercettazioni e documenti vari, che andavano prima interpretate e poi discusse. Con questo cosa intendo dire? Che i processi più complessi sono, meno c’è la possibilità di avere giustizia…. È stato così per l’inchiesta sulla gestione dei fondi destinati alla ricostruzione post terremoto dell’Irpinia, conclusasi con la prescrizione della maggior parte dei capi di imputazione e l’assoluzione di quasi tutti gli imputati, e anche per le numerose inchieste aperte per far luce sugli sprechi legati all’organizzazione dei campionati mondiali di calcio del 1990, solo per citarne alcune tra le più famose.

Inutile aggiungere che potrebbe andare allo stesso modo per il maxi processo sull’emergenza rifiuti in Campania, che in primo grado ha mandato assolti con formula piena tutti gli imputati; quello sugli appalti del G8 a La Maddalena (l’evento fu successivamente spostato a L’Aquila). Se le cose non cambieranno rischia di essere così – c’è da giurarci – anche per le inchieste sugli appalti dell’Expò milanese e del Mose veneziano.

Questo per dire che i processi vanno celebrati subito; frijenno, magnanno, si dice a Napoli. Anche perché un giudizio di condanna espresso a distanza di anni, se non di decenni, sembra quasi una sorta di vendetta perpetrata nei confronti dell’imputato di turno.

 

CondividiShare on Facebook0Tweet about this on TwitterPin on Pinterest0Share on Google+0Share on LinkedIn0Email this to someone

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>

Altri post dello stesso Autore