di Nico Pirozzi
Quanti soldi vale la vita di un uomo? E quanto, la memoria rapinata di mille e più innocenti? Qualcuno a Napoli ha provato a quantificarlo. E a conti fatti gli è andata anche bene, visto che da più di cent’anni il suo nome e il suo busto compaiono tra i benemeriti della città. Sì perché una manciata di milioni di lire (probabilmente nemmeno suoi, come sostiene qualche storico) che sul finire dell’Ottocento furono destinati all’edificazione del nuovo palazzo della Borsa nell’attuale piazza Bovio, sono bastati a Enrico Cialdini, luogotenente di Vittorio Emanuele II nell’ex Regno delle due Sicilie, a cancellare con un colpo di spugna anni di misfatti, tra cui l’eccidio di Pontelandolfo e Casalduni, avvenuto il secondo mercoledì d’agosto del 1861
A quest’uomo che, qualche anno fa, Jean-Noël Schifano bollò come “il boia del Volturno”, Napoli continua a riservare onori che non merita. Come il busto marmoreo collocato nel salone delle contrattazioni della Camera di Commercio, accanto a quello di Cavour.
Se gli amministratori dei Comuni di Palermo e di Riposto in provincia di Catania, hanno annunciato che il nome del generale sabaudo presto sparirà dalla toponomastica delle loro città (seguendo quanto già fatto, nel gennaio di due anni fa, dai Comuni di Mestre e di Casamassima in provincia di Bari, e più di recente da quelli di Lamezia Terme e Catania), non è per nulla chiaro per quale motivo i napoletani, anche se nel chiuso di un palazzo, dovrebbero continuare a custodire la memoria di un criminale di guerra. Sì perché proprio di questo stiamo parlando.
A denunciarlo non sono solo i fiumi d’inchiostro della pubblicistica neoborbonica, ma anche e soprattutto le cifre di una mattanza che, nell’ex Regno delle due Sicilie, anche senza l’apporto diretto del generale Cialdini, andò avanti per quasi un decennio.
Una carneficina selvaggia e senza regole, che l’allora cinquantenne scrittore e storico casertano Giacinto de’ Sivo tentò di sintetizzare sulla base di quanto leggeva sui giornali dell’epoca.
A tutto il mese di agosto del 1861, rilevava con la puntualità di un ragioniere de’ Sivo, si contavano “8.968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati, 10.604 feriti, 7.112 prigionieri, 918 case arse, 6 paesi dati in foco, 2.903 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate, 40 ragazzi e 68 donne uccise, 13.529 arrestati, 1.428 Comuni sollevati”.
Ed erano passati appena nove mesi di occupazione militare. Già perché quattro mesi dopo le cifre erano quasi raddoppiate e, secondo la stessa fonte, le persone imprigionate erano già 47.700 e 15.665 quelle, a torto o ragione, passate per le armi. Una strage di cui il plenipotenziario del sovrano sabaudo al Sud è da ritenersi direttamente o indirettamente responsabile.
Un po’ come è stato per il generale delle Waffen-SS Max Simon, che 83 anni dopo i fatti di Casalduni e Pontelandolfo, perpetrò un’identica mattanza a Sant’Anna di Stazzema e a Marzabotto. Per quell’eccidio – vale la pena tenerlo a mente – l’ufficiale nazista è stato processato e condannato a morte (pena mai eseguita) da un tribunale militare inglese; a Cialdini, invece, Napoli ha scolpito un busto.
Un po’ di più, a dire il vero, l’ha fatto lo scultore veneziano Vito Pardo, che al generale sabaudo ha dedicato il monumento equestre che, a Castelfidardo, celebra la famosa battaglia che, nel settembre 1860, contrappose gli eserciti del Regno di Sardegna e quello dello Stato Pontificio.
Sin qui la storia, più in là le analisi. Al rialzo ma anche al ribasso. Ed è così che le stragi di Pontelandolfo e Casalduni (limitiamoci solo a queste, sorvolando sulle cannonate sparate contro l’ospedale e altri obiettivi civili durante l’assedio di Gaeta dell’inverno 1860-’61) continuano a correre il rischio di essere derubricate a una dura quanto necessaria attività di repressione contro una banda di briganti che si era resa responsabile della morte di quaranta bersaglieri e quattro carabinieri.
Nulla di più falso, per almeno quattro ordini di motivi. Innanzitutto per il numero di vittime (diverse centinaia) e le caratteristiche dei presunti briganti (donne, vecchi, bambini e finanche alcuni religiosi), ma anche per le (efferate) modalità del massacro e le finalità stesse di quella che a dispetto delle parole resta una rappresaglia condotta ai danni di civili inermi.
A sostegno dei presunti meriti di Cialdini non si può nemmeno invocare il suo amore per Napoli e i napoletani, visto che in una lettera indirizzata all’allora Presidente del Consiglio dei ministri, Camillo Benso, conte di Cavour, paragonava Napoli all’Africa. E i napoletani peggiori dei beduini, che “a confronto di questi cafoni sono latte e miele”.
Ed allora perché destinare una parte dei propri averi per una città che non si ama e nemmeno si stima? L’ha fatto – sostiene Angelo Forgione un giovane blogger napoletano, documentatissimo sui misfatti del generale sabaudo – affinché “il suo nome non fosse maledetto dai napoletani e dai meridionali, auto-assolvendosi in questa maniera per le sventure procurate”.
Cialdini lasciò Napoli dieci settimane dopo le stragi di Pontelandolfo e Casalduni. Lo fece, scrive Giacinto de’ Sivo nella sua “Storia delle Due Sicilie”. “dicendo a’ Napolitani: “Gradite il poco che feci; perdonate se non seppi far molto. Parto, tranquillo, vi lascio un addio che viene dal cuore. Tolga il cielo che il mio soggiorno tra voi sia stato di danno a queste belle province”. Ma neppure il cielo potea togliere il sangue di cui l’aveva inondate”