di Paolo Mastrolilli
Pochi lo hanno notato, ma Donald Trump sta rubando le idee a Bill Clinton. Per esempio quella del «fair trade», ossia il commercio equo, da adottare al posto del «free trade», cioè il libero commercio. Una strategia che si è cominciata a materializzare ieri, con i decreti firmati dal presidente per uscire dal Tpp e rinegoziare il Nafta.
Il capo della Casa Bianca pensa che gli accordi per il commercio internazionale hanno penalizzato gli Stati Uniti, e in particolare i lavoratori americani, facendo scappare i loro posti nei paesi dove i salari sono più bassi. Quindi li vuole cancellare o riscrivere. Questo lo pone al centro di una disputa filosofica, oltre che politica, molto singolare per un repubblicano.
La dottrina del «free trade» favorisce la libera circolazione delle merci attraverso i confini, e aborrisce le tariffe protezionistiche: è il mercato che stabilisce gli equilibri. È la linea tradizionalmente favorita dal Gop, dagli anni di Reagan. La dottrina del «fair trade», invece, ha almeno due coniugazioni. Quella originale sostiene che i paesi in via di sviluppo sono penalizzati, perché i loro prodotti vengono sotto pagati da quelli ricchi, e quindi è necessario un intervento sovranazionale per riequilibrare le regole del gioco a loro favore.
Quella trumpiana, lungi da questo approccio solidarista multilaterale, accusa invece Stati come il Messico o la Cina di aver approfittato della generosità e ingenuità americana, per trarre vantaggi economici e commerciali sfruttando le condizioni del lavoro e la manipolazione della moneta. Quindi punta a riequilibrare la situazione denunciando i trattati, rinegoziando le regole e, se questo non basterà, imponendo tariffe.
“Il fatto curioso – spiega Allen Sinai di Decision Economics – è che il termine “fair trade” era stato usato per primo da Mickey Kantor, rappresentante per i commerci dell’ amministrazione Clinton, quando decise di andare allo scontro col Giappone, che veniva accusato di abusi simili a quelli rinfacciati oggi da Trump alla Cina o al Messico». Bill Clinton in sostanza aveva negoziato il Nafta, ed era stato l’alfiere della globalizzazione fino agli scontri del vertice Wto di Seattle, da cui era nato alla sua sinistra il movimento «no global”.
Nello stesso tempo, però, aveva usato le maniere forti del «fair trade» col Giappone, come in teoria dovrebbe fare ogni governo progressista per difendere i suoi lavoratori. Adesso però questa stessa strategia la adotta Trump da destra, sorprendendo col suo populismo l’ortodossia dello stesso establishment repubblicano. “Il problema – continua Sinai – è che la dottrina del “free trade” funziona se tutti aderiscono. Se invece un paese come gli Usa la adotta, e un altro concorrente come la Cina la rifiuta, salta tutto: il liberista perde ed è costretto a cambiare linea”.
Questo è quanto sta facendo Trump: “Non è filosoficamente contrario al libero commercio, ma ritiene che sia necessario riequilibrarlo, perché i concorrenti non lo adottano”. Nel caso del Messico, “questo si traduce nella rinegoziazione del Nafta. Il trattato non sparirà, perché conviene a tutti, ma ci saranno mutamenti sulla collocazione delle fabbriche e le condizioni di lavoro”.
Riportare la produzione negli Usa sarà costoso per le aziende americane, «ma potranno compensare aumentando la produttività e sfruttando le agevolazioni fiscali concesse dal governo». Invece nel caso della Cina, accusata anche di manipolare i cambi, «serviranno le tariffe». A differenza di quanto fece Tokyo con Clinton, Pechino non si piegherà alle richieste di Washington, e quindi «è probabile che andremo verso una guerra commerciale. Alle volte, però, per vincere è necessario combatterle».
(La Stampa)