Vladimiro Bottone

Vladimiro Bottone
l’autore che si legge due volte

di Paolo Isotta

In Vicaria, che la “Neri Pozza” ripubblicherà in edizione economica, Vladimiro Bottone dipinge un fosco quadro della Napoli del 1838. E non perché ricorra all’abusato tema di attaccare la tirannia di Ferdinando II, ma per l’inseguire con ricostruzione storica esatta e visionaria fantasia un mostro nato nel Settecento dal sogno della ragione: il più grande edificio d’Europa, l’Albergo dei Poveri.

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Paolo Isotta

L’utopia illuminista di Ferdinando Fuga costruì ciò che doveva essere un rifugio di sventurati e orfani e subito, seguendo le leggi proprie al mondo “concentrazionario”, si trasforma in un immenso carcere nel quale a tali leggi si aggiungono l’umana avidità, l’umana crudeltà.

L’oggi sessantenne scrittore napoletano perviene a una descrizione dell’inferno dai colori vividi allatto stesso che inventa una trama avvincente: Vicaria si etichetta come un “noir” storico, ma per me, anche per la finezza psicologica onde sono costruiti i personaggi, è un bellissimo romanzo storico che si legge la prima volta per seguire la vicenda, la seconda per la gioia dello stile.

Vicaria

I Personaggi di Vicaria tornano ne Il giardino degli Inglesi (“Neri Pozza”, pp. 400, euro 18). Alcuni da vivi, alcuni da morti; e alcuni morranno nel suo corso. Anche questo romanzo l’ho letto due volte. Quando un autore non si chiama Balzac, perigliosissimo è il dar vita a cicli narrativi. Ammiratore di Bottone qual sono, il piacere di Vicaria mi faceva da un lato desiderar di ritrovare l’ufficiale di polizia Gioacchino Fiorilli, la colonia di inglesi a Napoli, l’ambiente del “Serraglio” (il nome popolare dell’Albergo dei Poveri), il genio del male Domenico De Consoli; dall’altro temevo che la reincarnazione non fosse per riuscir debole.

Il secondo romanzo è spesso una delusione. Invece Il giardino degli Inglesi si svolge in autunno e possiede una tonalità autunnale, delicata, che trasforma la stessa atmosfera morale della vicenda quando è rivissuta nel ricordo. Poi i fatti procedono, sempre oscillando fra il torrido autunno napoletano, i freddi incipienti, una pioggia insistente e pervadente. Una trama non meno serrata dell’altra – Bottone è un maestro nell’inventar trame crescenti su se stesse con gran naturalezza – si dipana fra melancolia e disincanto.

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È come se pochi uomini, forti per volontà ed etica, deboli per i mezzi di che dispongono, tentassero di puntellare un edificio sociale minato dalla corruzione, dalla bassezza, dalla viltà, dall’ambizione, dalla vanagloria, dalla perversione. Questa lotta vale la pena di combatterla; ma è destinata alla sconfitta, perché la vita va così.

Il giardino degli Inglesi non si legge con sconforto, a onta del suo pessimismo. Quando un’opera narrativa possiede un valore autentico il lettore può parteggiare per qualche personaggio e odiarne altri; ma parteggia soprattutto per lo svolgersi obbiettivo degli eventi. Sarebbe stato facile per Vladimiro Bottone attribuire a quest’opera un lieto fine più o meno autentico; Vicaria si terminava con un provvisorio filo di speranza.

A me piace pensare con Nietzsche alla letizia del compimento del destino, quale che sia. E desidero ritrovare i personaggi di Vicaria e de Il giardino degli Inglesi in un terzo romanzo. Esso nascerà dal successo del secondo e la rinnovata fortuna del primo. La Rizzoli aveva pubblicato Vicaria senza rendersi conto del suo valore; il suo successo venne dall’editore vissuto più con fastidio che con indifferenza. Autore respinto da sei editori, dei quali il primo fu proprio questo, non mi sorprendo. Il rifiuto fu per me provvidenziale; l’amara vicenda ha temprato la penna di Vladimiro Bottone.

 (Il Fatto Quotidiano)

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