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L’odio per Trump
è nato prima di Trump

di Gerardo Verolino

E dunque un anno fa esplodeva il più grande fenomeno di massa contro qualcuno che si sia mai visto nella storia dell’umanità: la trumpfobia. L’odio per Trump è nato prima di Trump.

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L’anti-qualcosa è sempre presente nella società. Sonnecchia. Si mimetizza. Si acquatta.  Aspetta in silenzio che si manifesti l’occasione buona per riemergere: può essere l’anti-militarismo (quasi sempre antiyankees, mai una volta che si sia manifestato nei confronti, ad esempio, di un esponente della turpe dinastia nord-coreana o dei vecchi generali dell’Armata rossa) o per rivendicare i diritti negati del popolo (anche qui chissà perché sempre unidirezionali verso le democrazie e mai per le satrapie come quella venezuelana o quella dello Stato  autoritario cinese) o contro i gli affaristi ultraliberisti e i finanzieri spregiudicati (Occupy Wall Strett) mai contro gli sperperatori delle risorse pubbliche che pure sono la maggioranza.L’anti-qualcosa vive e lotta insieme a noi.

Gerardo Verdolino

Gerardo Verdolino

Ma un anno fa, già nel corso delle primarie repubblicane quando all’orizzonte appariva la scorrettissima, detestabile, cialtrona chioma bionda del candidato più inafferrabile, pericoloso, indecifrabile del lotto conservatore, l’antiqualcosa, drizzava le antenne e allarmandosi riemergeva dal suo stato di quiescenza per chiamare a raccolta l’umanità sotto le insegne del più grande movimento di massa che si sia mai visto contro un solo individuo: l’antitrumpismo.

Neanche contro Hitler si era mai creato un movimento d’opinione tanto vasto. Ma si sa, Hitler, era un animo nobile rispetto all’immobiliarista cafone.

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E’ noto che amasse la pittura ed era egli stesso un pittore soprattutto di  panorami oltre che essere un vorace e appassionato lettore di storie disneyane al punto da  custodire  gelosamente una rara edizione di Biancaneve e i sette nani.  Che zucchero d’uomo.

Trump è ontologicamente detestabile. Eredita una fortuna paterna. Edifica torri di uffici, grattacieli (l’apoteosi dell’orrendo: la Trump Tower), alberghi, casinò, campi da golf, lo sport per eccellenza dei ricchi.

Anche di Obama ma è meglio non ricordarlo.  Giudice  dall’occhio perennemente lascivo di concorsi trash e popolari come  Miss Universo e Miss Usa (che orrore!). Ideatore e conduttore di programmi pacchiani come “Apprentice” e “The Celebrity Apprentice” buoni per un pubblico di decerebrati frustrati e rampanti casalinghe da tinello.

Egli rappresenta  l’uomo ricco ma che ama stare berluschianamente tra il popolo. Un ricco che, in fondo,  detesta la compagnia dei ricchi. Una specie di Marchese del Grillo della Pennsylvania.

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L’opposto di Obama, l’idolo dei politically correct. L’avvocato, nero, democratico, liberal, pensoso, inappuntabile, riflessivo, educato. L’uomo dai perfetti sorrisi di circostanza durante le foto-opportunity. Ospite composto ai vertici internazionali. Mai uno scatto d’ira. Non un’alzata di voce per farsi rispettare .Eterno temporeggiatore. Buono e accomodante con tutti. Gli regalano il libro di Noam Chomsky, un odiatore compulsivo dell’America, e  lo mostra compiaciuto alla stampa.

I dittatori fanno a gara per incontrarlo, da Chavez che gli donerà, a sua volta,  provocatoriamente il libro di Eduardo Galeano “Le vene dell’America latina” per dargli dello sfruttatore, a Maduro fino a Raul Castro col quale intratterrà ottimi uffici fino alla, controversa, riapertura della sede diplomatica all’Avana.  E’ ricco ma non l’ostenta (Obama ha un patrimonio netto di 12 milioni di dollari. La moglie, Michelle, poco meno, 11,8 milioni) . Militarista ma ammantato di pacifismo (difatti alle truppe di terra preferirà gli anonimi droni: 26 mila bombe sganciate, in otto anni, su Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen, Somalia e Pakistan con svariate migliaia di vittime soprattutto fra i civili). Con questo curriculum di serio  bombarolo non potevano che assegnargli il premio Nobel della Pace apriori.

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Trump no, è il  cattivo dei film. Gli si dà tutt’al più il Telegatto di “Sorrisi e canzoni”. E’ il Presidente del popolo. O della “Rust belt”, la cintura della ruggine, di quegli Stati come l’Ohio, la Pennsylvania, il Michigan, il Wisconsin, l’Indiana e il West Virginia, colpiti dalla crisi dell’industria dell’acciaio, un tempo orgoglio dell’America e serbatoio di voti democratici, i cui lavoratori arrabbiati hanno votato in massa per lui. E’ il ricco tycoon che si sporca gli stivali  nel fango tra i minatori di carbone e dice loro  che non perderanno il posto mentre Hillary prometteva, genericamente, di “riconvertirli in altri mestieri”.

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Insomma Donald parla alla pancia del Paese e non ai sofisticati cervelli della Berkeley progressista. Tutto ciò è insopportabile. Lui incarna l’antipolitica sbruffona che vuole cambiare tutto. Anche i loro comodi privilegi. Essi vogliono la continuazione dell’ancien regime obamiano e della sua ideologia: l’America che non conta più nel Mondo mentre in patria trionfa l’universalismo dei gusti, del pensiero. e del linguaggio due punto zero.

Giusto o sbagliato , il trumpismo, ad onta di quei milioni di avversatori maldestri che hanno scambiato un Presidente americano per Al Capone, si promette di spazzare via tutta la finta retorica buonista su cui si reggeva la filosofia della precedente  amministrazione e vuole aprire una pagina nuova. e ancora tutta da scoprire della storia dell’America. Trumpfobici permettendo.

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