di Gerardo Verolino
Una presenza, grottesca e inquietante, s’avanza sulla scena politica italiana: il padre di Alessandro Di Battista. Sì, proprio lui, il deputato iperpresenzialista dei Cinquestelle (che, al momento avrebbe deciso di fare un solo giro della giostra evitando di ricandidarsi al Parlamento), al secolo Vittorio, di note simpatie missine (anche se esalta come maestro Che Guevara creando un cortocircuito ideologico nel suo cervello).
Dibbapapà senior attraverso la sua pagina facebook, ma anche in un’intervista al “Corriere della sera” e interrogato dal programma radiofonico “Un giorno da pecora” ha distillato il Dibba pensiero (di padre e figlio?) quando ha criticato il Movimento Cinquestelle per aver perso la sua spinta propulsiva: “Siamo stati rivoluzionari per qualche settimana, incomprensibili per qualche mese, preoccupanti per qualche semestre“.
Invitando anche il Movimento a “non rispettare lo Stato che è un’associazione a delinquere”. La loquacità del Dibba padre, condivisa ampiamente col garrulo figlio, è cosa nota dal momento che si offre spesso a microfoni e telecamere pur disprezzando i giornalisti che invita sovente “a pulire i cessi” o “a prenderlo nel culo“. Ma nelle ultime esternazioni è apparso senza freni. Rammaricandosi per la “normalizzazione” che avrebbe subito il partito quando bisognava aprire la politica con l’apriscatole “ma il tonno è rimasto nella scatoletta-ha detto- ci hanno dato il contentino di cambiare qualche goccia di olio rancido“. Che non è quello di ricino ma potrebbe evocarlo.
Il signor Di Battista, qualche settimana fa, si è reso protagonista, anche, di una scazzottata col generale Pappalardo, a capo di una bizzarra “marcia su Roma“, nella piazza di Montecitorio per “lavare l’onta” dell’offesa arrecata al figlio a causa delle bordate di fischi ricevute dai “forconi pappalardiani“.
Ma si trattava, in fondo, di una tenzone tra vecchi nostalgici. Vittorio, infatti, non ha mai rinnegato il suo passato fascista essendo stato consigliere comunale, negli anni ’60, a Civita Castellana) e, dopo l’adesione ad Alleanza Nazionale, vedendo poi il suo approdo finale nel Fronte Nazionale di Adriano Tilgher, un partito della destra più estrema, come una logica conseguenza. In verità, le cronache registrano anche, una sua candidatura con l’Italia dei Valori di Di Pietro, ma solo, in verità, perchè, il partito dell’ex magistrato, pare sposasse perfettamente le sue teorie giustizialiste.
Nel bagaglio culturale del Dibba senior figurano Rauti, Di Pietro, Che Guevara, l’anticapitalismo, l’antisocialismo: un miscuglio confuso e indistinto che ha fatto la cifra di un uomo dedito ad una vaga forma di ribellismo sociale. Con la Dibba’s family, possiamo affermare che, nella repubblica dei Cinquestelle, si perpetua quel filone legato al concetto dinastico (nel nostro caso al rovescio) importato dall’America e dalle varie democrazie anglosassoni legato alle famiglie in politica. Se altri hanno avuto i Kennedy, a noi ci tocca avere i Dibba.
Che possono essere meglio dei Miliband, dei Bush e dei Papandreu nella visione candidamente immaginifica di un grillino medio. Eppure, bisognerebbe sempre rammentare che la presenza dei parenti in politica da noi non è mai vista di buon occhio.
Tranne poche, rare eccezioni-si pensi a donna Assunta Almirante che in fatto di popolarità ha, forse, eguagliato il noto marito-il parente che interviene, subentra o affianca il noto politico è sempre considerato un impiccione.
E, in alcuni casi, come per il cognato di Fini o il figlio di Bossi o il padre di Renzi, per non parlare di quello della Boschi, anche causa di molti guai. Dio ci scampi e liberi dal parente che sgomita per farsi notare accanto al più famoso congiunto o che cerca di approfittare dell’occasione per far carriera.
Gli inglesi chiamano questa pratica “amoral familism”. “Non bastavano lottizzazioni, appalti e tangenti, adesso anche i parenti” diceva il buon Alberto Ronchey. E la televisione di Stato (che meriterebbe un ben più vasto approfondimento) potremmo dire che è stata creata proprio e anche per soddisfare le esigenze carrieristiche dei “figli di” o come cassa di risonanza del politico (e del parente) presenzialista.
Il vecchio Ettore Bernabei, storico direttore generale della Rai diceva: “Oggi ho dovuto assumere cinque giornalisti: un democristiano, un socialista, un laico e un comunista. Più uno bravo“. Cercasi bravi, anche quando esternano a più non posso come i Dibba, possibilmente di parentela neutra
Francamente alla fine ho perso il filo. E non ho afferrato bene la battuta del “cercasi bravi (politici?), anche se esternano troppo, purché senza parenti”.
Ma non importa. La descrizione di una politica di piccoli personaggi, che i media ingigantisce, ma che restano campioni del nulla è perfetta. Politici di poco conto che assurgono a livelli di orimo piano. Parenti, amici e seguaci che ne approfittano e si ritaglino il proprio spicchio di inutilità. Ma in primo piano, naturalmente. Che tutti insieme poi formano un coro petulante, inutile e assordante che stona e avvilisce il cittadino. Che un po’ si vede perso e senza speranze e un po’ si rassegna e sopporta. Malvolentieri comunque. Nella speranza che tutto questo prima o poi finisca. E da qualche parte esca finalmente uno bravo. Che però, con i moderni sistemi diblottizzazione