di Fiamma Nirenstein –
La frenetica opposizione alla possibilità che Trump decida di riconoscere Gerusalemme come capitale o persino di trasferirvi l’ambasciata non è di principio come vuole apparire, e neanche religiosa come Erdogan contrabbanda nei suoi discorsi più da capo della Fratelli musulmani che da presidente turco, tanto meno risponde alla preoccupazione che scoppi un inferno.
È un omaggio alla più vieta delegittimazione d’Israele, col solito coro inclusa l’Europa, come se non fosse ovvio che è la capitale. L’ultima minaccia di un inferno è di ieri sera, quando Abu Mazen ha parlato al telefono con Trump, ma oltre a signora mia cosa ci combina, si devono essere detti molte cose e forse non tutte negative.
Trump ha intenzione di rilanciare il processo di pace, i palestinesi che nonostante i discorsi roboanti sono deboli e chiusi in un angolo, forse desiderano anch’essi che qualcosa si muova.
Ma la decisione di difendere la Moschea di Al Aqsa anche quando gli ebrei non hanno nessuna intenzione di toccarla, è un mantra obbligatorio di tutti gli islamici, dai palestinesi, alla Lega Araba, ai giordani, è un comizio inevitabile da parte di Erdogan, che non suscita nessuno stupore quando esprime il suo consueto odio per Israele…
Dispiace la consueta solerzia dagli europei impegnati da sempre a ridurre Israele ai minimi termini, dalla Mogherini a Macron. Gerusalemme è un banco di prova.
L’alternativa fra spostare l’ambasciata e riconoscere la capitale ha tutta l’aria di una leva che probabilmente sarà stata usata nella telefonata.
Se Abu Mazen sarà troppo duro, Trump potrebbe decidere per l’ambasciata altrimenti può ripiegare. Ma se i due decideranno di sedersi insieme, si parlerà di un piano diverso, che cancelli l’idea inaccettabile per Israele del confine del ’67, assicurazione di guerra permanente, e preveda uno Stato palestinese con inserti territoriali israeliani e un allargamento nel Nord del Sinai. Se avverrà sarà un’operazione di verità cambiando strada da un vicolo cieco.
(Giornale)