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Ciampi, l’ideologia italiana

di Corrado Ocone

 Carlo Azeglio Ciampi, a ben vedere, è stato uno dei più coerenti rappresentanti di quell’ “ideologia italiana” che ha dominato nel secondo dopoguerra, e ancora domina oggi, la cultura politica e il comune sentire di buona parte della classe dirigente italiana. Una cultura che nel partito d’azione ha una delle sue radici storiche. E che, a mio modo di vedere, è non la cura ma una delle cause del nostro ritardo politico e culturale del nostro rispetto ai paesi di democrazia occidentale.

 Carlo Azeglio Ciampi ha fatto politica in senso attivo solo per un breve periodo della sua esistenza: quando “l’Italia era tagliata in due”, cioè nel periodo compreso fra la caduta del fascismo e la liberazione. E l’ha fatta nelle file del partito d’azione.

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Carlo Azeglio Ciampi

Ha iniziato poi una gloriosa carriera in Banca d’Italia, che da semplice impiegato lo ha portato negli anni a diventare governatore. Ufficialmente non ha mai più fatto politica, almeno non nel senso partitico del termine. Ed è proprio per questa sua caratteristica biografica che, nel 1993, quando il sistema dei partiti della prima Repubblica crollò, Ciampi fu chiamato a guidare un governo d’emergenza. Un governo non partitico, “tecnico” come da allora si cominciò a dire.

Ma davvero Ciampi è stato un mero amministratore, un imparziale e apatico custode del bene comune? Davvero è stato l’uomo che “ha ridato l’orgoglio all’Italia”, come la retorica nazionale ha subito cominciato a dire appena la notizia della sua scomparsa è cominciata a diffondersi? No. Ciampi è stato altro, molto di più.

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Corrado Ocone

Ciampi, ben vedere, è stato uno dei più coerenti rappresentanti di quell’ “ideologia italiana” che ha dominato nel secondo dopoguerra, e ancora domina oggi, la cultura politica e il comune sentire di buona parte della classe dirigente italiana. Una cultura che nel partito d’azione ha una delle sue radici storiche. E che, a mio modo di vedere, è non la cura ma una delle cause del nostro ritardo politico e culturale del nostro rispetto ai paesi di democrazia occidentale.

La prima cifra dell’ideologia azionista è la riduzione della politica a fatto morale, ove la morale, lungi dall’essere un fatto di coscienza, è l’adesione ad un insieme di idee ben definite che non sono considerate, da chi le fa proprie, al pari delle altre ma superiori in quanto “moralmente” certificate. Da chi? Ovviamente da élite autocostituentesi, non sorte dalla e nella lotta politica ma espressioni di ristretti gruppi di potere soprattutto intellettuali. Un caso di autocerificazione, per così dire, spostare il discorso politico sul terreno (presunto) morale ha come prima conseguenza la demonizzazione dell’avversario politico: chi la pensa diversamente è delegittimato in partenza, non ha uguale voce in capitolo nel dibattito pubblico, non è degno di essere combattuto con le armi della ragione (cioè con l’argomentazione) ma va semplicemente “demonizzato”.

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Come si vede, la possibilità stessa di una democrazia intesa in senso liberale viene qui meno. E non è perciò un caso che gli azionisti alla Ciampi, in barba ad ogni retorica democratica, ritengono che le decisioni politiche vadano prese in organi ristretti che sono volti a fare il bene di tutti senza che questi tutti abbiano voce in capitolo per decidere da sé.

È in questo orizzonte di idee che nasce la retorica antifascista, a cui Ciampi si tenne sempre rigorosamente fedele. In essa il fascismo, lungi dall’essere compreso e combattuto storicamente e politicamente, viene considerato come una perversione morale, un “carattere genetico” degli italiani sempre risorgente nei tempi e sempre da combattere.

Profondamente anti-italiano, in questo senso specifico, l’azionista guarda all’Europa e ai cosiddetti “vincoli esterni” come un ancora di salvezza, come la possibilità di “educare” gli italiani a comportamenti virtuosi. Ed è così che Ciampi ha concepito l’adesione dell’Italia all’euro, al di là di ogni considerazione tecnica o ad ogni seria preparazione economica all’evento (altro che tecnico!).

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Una volta che questa visione pedagogo-giacobina è fallita, non è nemmeno un caso che non si sia sentita un’autocritica: chi è convinto di essere moralmente nel giusto, non può misurarsi con gli imperfetti e labili pragmata del mondo umano. Nega cioè la politica, che con quei pragmata commercia, ma non in nome della tecnica bensì della morale astratta. È ancora un modo di fare politica questa particolare antipolitica, ma con il liberalismo, con la cultura dell’imperfezione che ha fatto grande l’Occidente, ha poco o punto da spartire.

 (Corrado Ocone, L’Intraprendente)

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