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No, non erano fascisti rossi

di Giuliano Ferrara -

Ho saputo che era stato rapito nell’atrio della Federazione comunista di Torino, di ritorno da un viaggio a Roma per una riunione alle Botteghe Oscure. Sono passato davanti a via Caetani, che dalle Botteghe Oscure è a due passi, la mattina in cui i suoi assassini l’hanno depositato come un agnello in una Renault rossa, perché andavo a prendere il tassì per Fiumicino tornando a Torino dove vivevo e lavoravo come dirigente comunista e responsabile dell’antiterrorismo. Erano passati cinquantacinque giorni, il tempo dell’unica vera tragedia nazionale vissuta dalla mia generazione.

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La strage di via Fani

È stato tutto tremendamente semplice, come sempre nelle tragedie, basta leggere le cronache dell’epoca e le pagine di Shakespeare.

Fu rapito, e la sua scorta annientata, da un commando di italiani organizzati in banda armata che tentarono il colpo grosso in nome della lotta all’imperialismo e alle multinazionali e al regime politico democratico, giudicato il contenitore formale dell’oppressione dietro lo scudo di valori per loro insinceri.

Giuliano Ferrara

Giuliano Ferrara

L’organizzazione era perfetta, la custodia segreta del prigioniero introvabile non ebbe falle, la campagna informativa e omicida di quella primavera nera dei dannati anni Settanta, con la gestione delle lettere dell’imputato prigioniero nel carcere del popolo, dei tribunali in cui i vertici dell’organizzazione erano processati e rovesciavano l’accusa contro lo stato, fu un caso di scuola di guerriglia urbana dispiegata, da manuale.

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In tutta la storia non c’è un solo dettaglio misterioso, non una controverità possibile, tutti gli elementi decisivi testimoniano per chi ha memoria, per chi ha vissuto quei giorni sapendo qualcosa del suo Paese, che è accaduto quel che veramente è accaduto.

La divisione politica tra difensori dell’integrità dello Stato indisponibili alla trattativa e umanitari era nelle cose, corrispondeva alle culture in ballo, ai processi politici in corso, ben più che agli interessi di gruppo e di partito confliggenti.

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Morucci e Balzerani, come 40 anni fa…

Tempismo “perfetto” La scelta dei tempi delle Brigate rosse, e il loro obiettivo nella persona del presidente dialogante della Democrazia cristiana nel giorno del varo del governo sostenuto dal Partito comunista, fu impeccabile, quella era l’Italia del compromesso storico e della partitocrazia costituzionale al suo culmine, e la crisi sociale e culturale nelle fabbriche, nelle scuole, negli uffici, nei giornali, nei sindacati, nella borghesia industriale, nella burocrazia di comando era sotto gli occhi di tutti, come il marasma nello Stato.

Tra quelli del commando e dell’organizzazione c’erano miei compagni della scuola accanto, banali ex liceali romani fatti guerriglieri, e c’erano “avanguardie” del partito armato notorie nelle fabbriche, nelle leghe del sindacato metalmeccanico, nella zona di opacità operaia che accompagnava i movimenti usciti dal 1968 e dal 1969 (la formula dell’opacità è di uno storico inglese del radicalismo sociale, E. P. Thompson).

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Un anno prima avevano cacciato con la violenza il segretario della Cgil dall’Università di Roma, mostrando le prime P38 in un grande esercizio di squadrismo anti istituzionale. Da anni rapivano o gambizzavano o ammazzavano come cani magistrati, giornalisti, secondini, poliziotti, politici, capi del personale nelle fabbriche. Nelle università si brindò al rapimento.

A Orbassano, dove ero andato per tenere un comizio in difesa della democrazia in una zona operaia della cintura di Torino, fu distribuito un volantino di plauso all’attacco al cuore dello Stato, scesi dal podio dell’oratore e cercai platealmente chi lo distribuiva nel fermento della folla, era un ragazzino dalla faccia innocente di quelli che poi si fecero vivi in seguito nelle cronache della spaventosa guerra civile che non sembrava arrestabile, non era né un isolato né un provocatore, era un giovane italiano del tempo in cui prendere le armi contro le istituzioni era considerato possibile, e per molti, marxisti e cattolici e radicalizzati di ogni sorta, un dovere ideologico e politico.

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Giorgio Amendols

 Il grande equivoco Era drammaticamente difficile in quei giorni spiegare che non erano fascisti rossi, come sosteneva Giorgio Amendola nei suoi comizi torinesi, come pensavano o dicevano di pensare le classi partigiane che erano allora coscienza pubblica nella sinistra comunista, era difficile spiegare che non erano agenti provocatori, magari stranieri o al servizio delle “intelligence”, e che per quanto di spurio e di sporco esista ovviamente in tutte le avventure belliche e in tutte le bande che si armano, eravamo di fronte a un fenomeno sociale e politico autentico, a lettere autentiche di Moro costretto nella sua grandezza spirituale e nella sua voglia di mediare e di vivere (le due costanti della sua vita di uomo di Stato), quelli non erano “lupi impazziti” ma figli di una deriva di cultura e di follia ideologica che si era dipanata sotto i nostri occhi in mezzo a indifferenza delle maggioranze in certi ceti e ambienti e aperto consenso di minoranze estese in altri. Ma era così.

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E Moro non poteva non essere ucciso, per nessun motivo, c’era una logica che nessuna commissione parlamentare d’inchiesta e nessun processo e nessuna fiction hanno mai potuto ribaltare.

(www.panorama.it)

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