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Scaffale, ecco la vetrina
per i vostri racconti

Scaffale è la grande vetrina per chi ha un libro nel cassetto. Inviateci i vostri racconti, romanzi, favole e poesie. Devono essere inediti.Korolevskiy-dvorec-v-Neapole1

Centocinquanta e la gallina canta

di Ninì Mensitieri

Giovedì, diciassette  marzo duemilaundici, ore sette del mattino.  Sto per assistere ad un fatto che ha del soprannaturale. O, quantomeno, ad una  cosa strana, molto strana.
D’altronde, quelli che fanno jogging lo sanno: quando vai, dopo un po’, il cervello ti si svuota e si predispone a ricevere e transcodificare ogni più piccolo segnale.
Mettiamo che ti faccia prendere dal mare, dai riflessi che il sole nascente disegna sulle onde, bene, ne percepirai anche l’odore, ne assaporerai il gusto, sentirai la pelle bagnata frizzare e ti accompagnerà il ritmo della risacca. E non saranno tutti messaggi reali ma, una cosa è certa, ti parranno tali.
Ed io, dopo circa un’ora di corsa, ero in Piazza del Plebiscito quando, nell’attraversare la luce dell’ingresso del Palazzo Reale, fui spostato in malo modo da una persona che ne usciva. Provai a protestare ma questi parve non essersi accorto di nulla e si avviò verso Toledo.
Mentre riprendevo la corsa, sentii: “Guagliò!”
Ora, qui da noi, a seconda dell’età del nostro interlocutore e nostra,  possiamo sentirci chiamare: guagliò, giuvinò, ’o zi, ‘o no. Oppure, fuori dalla modalità spazio-tempo: duttò. Per ottenere il dottorato, però, bisogna che siate alla guida di un’auto che costi almeno cinquantamila euro. Per fortuna, tra le tante endemie che ci affliggono, di questa non abbiamo l’esclusiva: la stupidità è di ogni latitudine. Questi, se ne avessero notizia, considererebbero Fromm un povero mentecatto per aver proposto due strade di cui solo una è percorribile. Indovinate voi quale !
In ogni caso, per l’età che ho, quel “guagliò” mi aveva costretto a girarmi ed, ai miei occhi, era apparso un tizio sui sessanta, segaligno, ventre e naso prominenti. Indossava un calzone, una volta bianco,  aderente, senza tasche né patta, sorretto da una fascia blu e infilato in stivali alti al ginocchio. La parrucca, bianca anch’essa una volta, era messa di lato e, sulla nuca, penzolava un nastro rosso. Continuò ad urlare: “guagliò! guagliò!” all’indirizzo, adesso lo avevo capito, della persona uscita prima dal Palazzo. Quando gli fu vicino, ebbe necessità di tirare il fiato e mi diede il tempo di accorgermi che l’altro era più largo che alto e che, anch’egli, sfoggiava un costume d’epoca: marsina, pantalone da passeggio “pie de poule”, stivaletti neri e ghette color giallo Napoli.
“Ferdinà!”, disse quello magro, “Tua nonna nun me lassa pere! Allora le ho detto che avrei portato Nanduccio a piglià nu poco d’aria e, tanno, s’è fatta capace. Ragion per cui mò nce facimmo duje passi, nonno e nepote, pò me piglio ‘a funicolara e vaco a ‘o Vommero a truvà  Donna Lucia. Tu te ne vaje addò vuò tu…. ma, sienteme buono, quanno tuorne a ‘o Palazzo vieneme a piglia si nò so cazzi…”
“Nonno, state mettendo a dura prova il rispetto che Vi devo e l’affetto che ho per Voi” disse, d’un fiato, l’uomo in marsina, “e poi, non riuscite proprio a parlare in italiano, nemmeno oggi che vengono festeggiati  i centocinquant’anni dell’unità di questo Paese?”
Re Nasone alzò gli occhi al cielo mostrandone il bianco, rilassò le spalle e lasciò cadere le braccia, sfiduciate, lungo i fianchi. Poi, dopo un lungo momento, disse: “Je nun ce vulevo credere… ma tu overamente si scemo! Ma che tien’ ‘a festeggià, quanno, pe fà st’Italia hanno scippato ‘o Regno ‘a chillo pupaziello ‘e figliete Franceschiello! E po‘, si  proprio ‘o vuò  sapè, si s’è perso ‘o Regno nuosto,…a colpa è ‘a toja!”
“a Mia?”
“Sissignore, ‘a toja!!! Ca si nun te facive ‘mbriacà ‘a chillu vruoccolo ‘e Filangieri, ammacaro, concedevi  la Costituzione na vota pe tutte. Senza fa chella jacuvella c’aje fatto:… sì, nò, nò, sì, nò!  Ma addò te credive e stà? A ’o mercato do pesce?
E’ chiaro ca facenno accussì, appena hanno pututo …”
Tacque!
Alzò il pugno della mano destra.
Portò il medio in posizione eretta.
E lasciò che l’iconoclastia del gesto desse senso compiuto al suo pensiero.

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