di Iolanda Siracusano
Il Festival di Sanremo 2017 chiude finalmente i battenti per la gioia di quanti da anni seguono l’evento musicale dell’anno e ogni anno rimangono sempre più delusi dal livello delle canzoni in gara che ormai sembra la finale in differita del talent Amici di Maria De Filippi. Perché la sensazione è questa: le canzoni che arrivano illese fino all’ultimo sono canzoni tutte uguali, piatte, scritte con la stessa ispirazione con cui si scriverebbe una lista della spesa
E a cantarle sono cloni di cloni di personaggi defilippiani che ogni anno, puntualmente e in maniera sempre più invadente, trasformano il palco dell’Ariston in una passerella di biondume platinato urlante la fine disperata di qualche amore che si fa un po’ fatica a credere non sia di plastica. Un po’ di marketing va bene. Trucco e parrucco da star pure. Però il Festival non è e non può ridursi ad una festa in maschera dove a vincere sono pezzi dai testi e dalle melodie così scadenti e a perdere è sempre la musica.
Chi scrive pensa che in questo Festival si stia per toccare veramente il fondo. Eliminare in semifinale Ron e Albano non sarebbe stato neanche grave se in gara, al loro posto, fossero rimasti dei cantanti.
Eliminare Ron e Albano, per farci sentire per la terza serata delle lagne strazianti che differiscono l’una dall’altra solo per il titolo, e neanche tanto, significa dare il colpo di grazia ad una manifestazione che già a stento si riesce a seguire per cinque giorni consecutivi senza accusare i primi disturbi fisici e mentali per l’imperante schiamazzo.
Onde sonore che ti si infilano nel cervello senza lasciare suggestioni. Neanche l’ombra di un’emozione. Solo frastuono.