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Tre volte Napoli

di Valerio Caprara

Di cine-napoletanità, è noto, si può anche morire (e raccogliere le briciole del botteghino). La vena dei talenti autoctoni e i riflessi della quotidianità romanzesca fanno credere che a uno sceneggiatore o a un regista basti mettere la mano fuori dalla finestra per acchiappare storie e personaggi da inscatolare in contenitori filmici qualsiasi; e se poi succede che il prodotto sia impresentabile, si può sempre darne la colpa ai nemici del Nord o ai sicari interni dello #sputtananapoli.

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I fratelli produttori Cannavale hanno invece usato tutto il mini budget a disposizione per  ” mirando –l’iddio del cinema gliene renda merito- alla competenza registica, la valentia del cast e l’accuratezza di confezione.

Tre episodi, dunque, per tre registi accomunati dall’intento di cogliere flash della società multietnica da un punto d’osservazione arguto, disincantato, bonario ma soprattutto anticonvenzionale; cioè espurgato, per dirla tutta, delle ostilità xenofobe ma anche delle pantomime dell’”ammore” e della “diversità” da cabaret autopromozionale.

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Così in “Nino e Yoyo” di Lombardi il portiere fannullone e fobico cesellato da Imparato trasforma un delizioso cinesino in perfetto aiutante; in “Luba” di Prisco la badante ucraina (Lapushova) angariata da un pestifero bacucco (Casagrande) si ritrova a sorpresa celebre come lo era in patria; in “Magnifico shock” di De Angelis, uno spaesato giovane barista cingalese viene trascinato nella folle giornata di una starlette neomelodica (Candurro) e del suo cialtronesco manager (Gallo). Risate garantite e disseminate su fondali talvolta già sfruttati eppure toccati dalla grazia di neo-munacielli eduardiani come l’Esposito che fa da trait-d’union tra uno scorcio e l’altro del cunto meno corrivo che si potesse oggi immaginare tra i cunti della nostra odiosamata città.

 

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